mercoledì 30 marzo 2011

BERLUSCONI A LAMPEDUSA

Rifacciamo nuova Lampedusa!
Questo è stato il nostro auspicio a conclusione del post precedente, perché Lampedusa dopo l'ultima invasione massiccia di clandestini risulta distrutta materialmente e come immagine. E cosa ti va a fare oggi Berlusconi arrivando a Lampedusa?
“Ricostruiremo Lampedusa” ha arringato i lampedusani plaudenti, come un navigato mago che estrae il coniglio dal proprio cilindro.
La svuoteremo dai clandestini nel giro di 3 giorni, ha affermato sicuro il Premier, la ripuliremo, le cambieremo aspetto con un piano colore, rifaremo la sua immagine con appositi servizi televisivi nelle tv di Stato e in quelle pubbliche, per promuovere il suo mare meraviglioso e le sue incantevoli spiagge e calette, e la proporremo per il Premio Nobel per la pace.
Ha promesso anche un campo da golf, un casinò e che Lampedusa sia porto franco.
E, in conclusione, come asso tirato fuori dalla manica, ha dichiarato di avere acquistato casa a Lampedusa. Ricorda tanto la storica dichiarazione che fece John Kennedy a Berlino “Ich bin ein berliner” (io sono un berlinese).
Io sono un lampedusano ha detto al mondo intero Berlusconi. Per carità, lungi da noi l'idea di volere accostare i due uomini politici. La Storia ha dato un giudizio sul primo, la Storia lo darà anche sul secondo.
Rimane un fatto certo, però, la capacita di Berlusconi di ribaltare mediaticamente a suo favore anche le situazioni più disastrose.
Ricordiamo il caso spazzatura di Napoli e il terremoto dell'Aquila. I suoi rivali dell'opposizione Bassolino, Iervolino, Prodi, Pecoraro Scanio & Co. avevano, i primi, creato la disastrosa situazione igienica di Napoli con la “monnezza” che arrivava ai piani alti della città, i secondi non erano stati in grado di risolverla, inerti politici che si avviluppano in fumose e contorte alchimie che non conducono da nessuna parte.
Berlusconi ripulì Napoli nel giro di pochi mesi.
Per il terremoto dell'Aquila, Berlusconi promise e mantenne la promessa di ricostruire le case terremotate in soli tre mesi.
Poi, certo, alcune cose devono ancora essere completate sia a L'Aquila, dove parte del centro storico deve essere ricostruito, sia a Napoli dove il problema “monnezza” sembra lungi dall'essere stato risolto definitivamente.
Comunque va dato atto al personaggio Berlusconi della capacità mediatica di sapere gestire con straordinaria padronanza momenti favorevoli ma anche quelli drammatici.
E' questa la differenza che salta subito agli occhi tra il Berlusca e i suoi rivali dell'opposizione e fa apparire il primo un gigante e i secondi dei nani litigiosi, al di là dei rispettivi meriti personali che sarà la Storia a valutare e a ricordare.
Gaetano Gaziano
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martedì 29 marzo 2011

LAMPEDUSA: EMERGENZA GLOBALE, SOLUZIONE PADANA

Cosa sta succedendo ci chiediamo increduli guardando le immagini scioccanti delle carrette del mare che vomitano sui moli di Lampedusa giovani magrebini smarriti o festosi a seconda del tipo di traversata fatta? Perché non si affronta l'emergenza che pure era stata ampiamente prevista e annunciata? Perché li si lascia vagare in condizioni disumane su questo scoglio in mezzo al mare?. Sono queste e molte altre le domande che ci facciamo ed è davvero difficile trovare il bandolo di una matassa che sembra essersi ingarbugliata sempre più. Non c'è dubbio che ci stiamo trovando nel bel mezzo di un cambiamento epocale di cui ancora oggi non riusciamo a capire appieno la portata e le conseguenze. L'Africa che ci sta di fronte a solo poche miglia dalle nostre coste è in subbuglio e siamo proprio noi ad avvertirne per primi l'onda d'urto e la drammaticità. La Tunisia è stata la prima ad esplodere con la cacciata di Ben Alì, è seguito l'Egitto con la caduta di Mubarak, e oggi ci troviamo in primo piano in una Libia in fiamme. La guerra in Libia ci ha colti di sorpresa e ci lascia esterrefatti per tutte le conseguenze possibili. Passare dall'oggi al domani da amici e interlocutori privilegiati a nemici del raìs non è certo cosa da poco se, soprattutto, si aggiunge a ciò il fatto di essere additati quali traditori e obiettivi possibili di ritorsioni. Ci si domanda dunque se almeno questo poteva essere previsto ed evitato, usando magari comportamenti più equilibrati e più consoni ad un paese serio quale vuole essere l'Italia. Si è consentito a Gheddafi in questi ultimi due anni di scorrazzare a Roma, circondato da soldatesse amazzoni, di piantare tende beduine nei nostri parchi, facendo caroselli a cavallo, di insegnare il Corano pagando giovani avvenenti ragazze, insomma di fargli usare tutto quell'armamentario simbolico che ne ha fatto una macchietta impresentabile ma non per questo meno pericolosa.
E in questo, come in altri frangenti simili, ciò che ci ha più ferito è stato il vedere il nostro Presidente del Consiglio sempre in adorazione di chi detiene il potere con la forza e non democraticamente. Questi comportamenti eccessivi, e il baciamano ne è una prova, anche per chi ha interessi da tutelare, ci ha di fatto resi più vulnerabili e più titubanti nell'individuare la strategia giusta oggi che siamo impegnati, con l'alleanza atlantica, nel fare osservare la no fly zone della risoluzione 1973 dell'Onu. Forse non ci voleva la sfera di cristallo per capire che era pericoloso e sconveniente avere rapporti così stretti e amichevoli con un dittatore che si era già macchiato di attentati terroristici (come Lockerbie) e che aveva sparato nel 1986 i missili su Lampedusa. Ma tant'è i fatti sono questi e bisogna oggi trovare il modo di venirne fuori nella maniera più indolore e dignitosa possibile. Cosa saprà fare il governo Berlusconi per risolvere la crisi libica lo vedremo nei prossimi giorni. Cosa sta facendo invece per risolvere l'emergenza immigrazione, conseguente a tutto questo sommovimento epocale, lo stiamo vedendo da circa un mese ed è davvero sconfortante.
Proprio in queste ore viene annunciata la visita a Lampedusa del premier così come l'invio di grosse navi, ma, al di là di quanto sarà fatto nei prossimi giorni, resterà l'ignominia per l'inefficienza dimostrata.
Le immagini e le notizie che arrivano da Lampedusa testimoniano una situazione non più sotto controllo, sfuggita di mano o più verosimilmente lasciata scappare. Nel 2008 lo stesso ministro Maroni seppe affrontare l'emergenza di sbarchi eccezionali che portarono a Lampedusa ben 38000 immigrati, molti di più di quei 20000 arrivati fino ad ora. Perché, ci chiediamo, il governo non sta mettendo in atto un vero piano di evacuazione e smistamento e lascia invece che tutto ricada su Lampedusa e la Sicilia? Sta andando in scena ormai da più di un mese lo spettacolo indecoroso di un'umanità sofferente e mortificata, vagante come in un girone infernale. E' chiaro, infatti, che dietro i ritardi e le lentezze con cui si sta affrontando il problema c'è la volontà precisa da parte di un governo sotto scacco leghista di imporre atteggiamenti e sensibilità che la maggior parte del popolo italiano rifiuta in quanto disumani e non confacenti ad un paese civile, così come c'è la volontà di mandare un messaggio all'Europa recalcitrante nella condivisione dell'emergenza immigrati. E' in questa deriva leghista che Lampedusa viene lasciata sola a fronteggiare un'emergenza umanitaria e sanitaria senza precedenti, facendo ricadere tutto il peso sulla Sicilia che risulta penalizzata anche con la chiusura dell'aeroporto di Trapani Birgi (mentre esiste Sigonella), con Pantelleria anch'essa diventata aeroporto militare, con Mineo centro di accoglienza e chi ne ha più ne metta. Il governo Berlusconi-Bossi, insomma, ha trovato il modo di tutelare il Nord usando il Sud quale pattumiera d'Italia. E' la stessa logica che ha imposto alla Sicilia quelle infrastrutture che nessuno vuole a casa propria come i rigassificatori ieri e, chissà, le centrali nucleari domani.
C'è da chiedersi, in questo scenario desolante, cosa stiano facendo i politici siciliani al governo e anche quelli all'opposizione. Abbiamo sentito parlare per Lampedusa genericamente di compensazioni, non ci risulta che si stiano quantificando i danni morali e materiali per passare dalle parole ai fatti. Sarebbe perciò auspicabile che, passata 'a nuttata , si pensasse seriamente a rilanciare l'immagine di Lampedusa offesa, realizzando tutte quelle opere infrastrutturali necessarie al rilancio del turismo che l'emergenza immigrazione ha collassato.
Negli ultimi trenta anni Lampedusa ha avuto un trend turistico sempre crescente, mentre le infrastrutture sono rimaste le stesse, dimensionate per 5000 abitanti. Ecco perché sarebbe necessario rifare la rete idrica, quella fognate, un depuratore efficiente, un nuovo dissalatore, così come il rifacimento delle strade.
Rifacciamo nuova Lampedusa per rilanciare un turismo che avrà bisogno di nuove spinte dopo il collasso che ha subito e continuerà a subire. Non limitiamoci, per favore, a spot televisivi con immagini oleografiche. Sarebbe una beffa che i lampedusani accoglienti, ma non certo stupidi, non tollererebbero.
Caterina Busetta.
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sabato 26 marzo 2011

SARKOZY: BOMBE & PETROLIO

Che le ultime guerre siano state combattute per il petrolio e per l'energia in generale è opinione comunemente condivisa. Le guerre in Iraq non sono state fatte di certo per portarvi la democrazia, ma per il petrolio che stava tanto a cuore ai due “gloriosi” condottieri: Bush padre e Bush figlio, petrolieri appunto. La guerra, che hanno avviato contro la Libia i “volenterosi”, sa poco di sostegno ai ribelli cirenei e sa tanto di corsa agli immensi giacimenti di petrolio e di gas di cui è ricco il sottosuolo libico. Il più “volenteroso” di tutti risulta Nicolas Sarkozy, Napoleone in formato tessera, che ha messo gli occhi sul petrolio libico. La sua, più che una guerra totale, sembra una guerra Total, la compagnia petrolifera francese rivale di Eni che attualmente ha la concessione dei pozzi libici.
E' da diversi anni che Nano Sarkò va girando con la valigetta di piazzista dell'industria nucleare francese. E gli affari gli andavano pure bene. E' riuscito a piazzare almeno 4 centrali in Italia per un business stimato in 20 miliardi di euro, da scaricare sulle bollette degli Italiani. Molte altre ne ha piazzate in giro per il mondo. Nano Sarkò è un ottimo piazzista: riuscirebbe, come si suol dire, a vendere frigoriferi agli Esquimesi. Sappiamo bene quali siano i suoi “convincenti” argomenti: c'est l'argent qui fait la guerre, dicono appunto i francesi. Non so quante centrali nucleari abbia appioppato questo abile piazzista. Come mia esperienza personale, posso raccontare che, avendo fatto un viaggio in Giordania, splendido paese ricco di un enorme patrimonio archeologico, ho appreso che il nostro “eroe” ha venduto o stava per vendere una centrale nucleare anche al re giordano beduino Abdullah. E la Giordania non ne ha certo bisogno, in quanto nuota in mezzo al petrolio che non produce ma è attraversata da tutte le pipeline del Medio Oriente, per cui in virtù delle royalties la benzina costa un terzo di quanto costa in Italia. Ora Nano Sarkò ha capito che sono arrivati tempi duri per i piazzisti del nucleare e tenta di espropriare all'Italia i pozzi di petrolio che abbiamo fin dagli anni Cinquanta ai tempi di Mattei, scatenando la guerra dei “volenterosi”
E pazienza se questa guerra provocherà migliaia di clandestini. Sarkò ha detto sprezzantemente: i clandestini se li tenga l'Italia
Gaetano Gaziano.
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martedì 22 marzo 2011

DISASTRO IN GIAPPONE E SCELTE ENERGETICHE


Le immagini e le notizie che arrivano dal Giappone, con la velocità e l'intensità che le nuove tecnologie permettono, ci sconcertano e ci rendono consapevoli del piccolo villaggio che ormai è la nostra terra e di come ciò che succede a migliaia di km da noi ci riguarda e ci coinvolge emotivamente e materialmente. Abbiamo visto, con immagini per lo più amatoriali, la furia distruttiva dello tsunami che ha sbriciolato ciò che ha incontrato sul suo cammino: barche, strade, ferrovie, case, inghiottendo interi paesi e villaggi e lasciando solo fango e detriti.
Certo, ciò con cui il Giappone sta facendo i conti in questi giorni è una violenza della natura talmente forte ed eccezionale da fare inorridire perfino un popolo come quello giapponese, da sempre abituato ad affrontare le calamità naturali con stoicismo e forza da samurai.
L'allarme nucleare che è sopraggiunto dopo il terremoto rischia davvero di gettare nello sconforto e nell'angoscia non solo il Giappone ma tutto il pianeta.
Il Giappone che, come sappiamo, è la terza potenza mondiale ha saputo, negli ultimi 60 anni, sviluppare la sua economia grazie a tecnologie avanzatissime non solo nel campo dell'elettronica ma in tutti i settori industriali più avanzati.
Il fatto, ad esempio, che non ci sia stato un solo morto per effetto del devastante terremoto è il risultato dell'avanzata tecnologia antisismica nel costruire gli edifici.
Oggi però il disastro nucleare, che si intravede, fa pensare al Giappone come ad un colosso con i piedi di argilla e ci chiediamo come mai tutto il loro sviluppo industriale si sia basato prevalentemente sull'energia nucleare.
La risposta è semplice: non c'era altra scelta. Il Giappone non è altro che un arcipelago di isole nell'Oceano Pacifico, privo di combustibili fossili quali petrolio e gas. Il suo isolamento geografico non gli ha consentito, poi, di essere collegato, come succede invece all'Italia, né con gasdotti né con oleodotti.
La scelta del nucleare civile, quasi una sfida allora ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, fu quindi obbligata e indispensabile, così come fu obbligata la scelta dei rigassificatori che portano LNG (gas liquefatto) dal Qatar con le navi cisterne per essere appunto rigassificato. Le energie alternative, quali l'eolico e il solare, negli anni '60 e '70 erano di là da venire e perciò nemmeno prese in considerazione.
Non penso di essere temeraria nell'affermare che, finita l'emergenza, il Giappone ripenserà tutta la sua politica energetica e diventerà campione delle energie rinnovabili, dimostrando al mondo intero che è possibile conciliare il progresso e lo sviluppo economico con la sicurezza e la tutela dell'ambiente.
Non c'è dubbio però che una tale calamità obbliga oggi tutti alla riflessione.
In quest'ottica, è spiegabile la tempestività di Angela Merkel che ha deciso di chiudere le centrali nucleari più vecchie (ben 7), così come lo stop in Svizzera al programma nucleare.
Davvero incomprensibili sono invece apparsi l'atteggiamento e la dichiarazione della siciliana Prestigiacomo che, con arrogante sicumera, ha dichiarato andremo avanti nel nostro programma nucleare.
Ecco, io penso che Stefania Prestigiacomo sia tra i più discutibili personaggi di questo governo. Contrariamente, però, a quanto è successo ad altri ministri, come la Gelmini che spesso si è trovata nell'occhio del ciclone, sembra che nessuno si stia accorgendo che la ministra Prestigiacomo più che fare gli interessi dell'ambiente faccia quelli dell'industria pesante.
Per dimostrare ciò basta ricordare alcuni episodi precisi, come quando fece schierare il nostro Paese con quelli dell'Est contrari alla riduzione delle emissioni di Co2 in atmosfera, in applicazione della direttiva Ue cosiddetta 20/20/20, cioè 20% in meno di emissioni entro il 2020 e l'aumento del 20% delle rinnovabili. O come quando ha dato il via libera al rigassificatore di Porto Empedocle, dimenticando l'esistenza della Valle dei Templi-sito Unesco- che non venne mai nominata nel decreto di Via, dove invece puntigliosamente venivano elencati alcuni siti Sic (di interesse comunitario) quali Torresalsa e Maccalube.
Da allora è stata un'escalation in difesa degli interessi industriali soprattutto in Sicilia, sempre al fianco del presidente degli industriali Lo Bello in convegni e per iniziative riguardanti lo sviluppo industriale e non certo la difesa dell'ambiente, fino a sponsorizzare, in un vero braccio di ferro con Lombardo, il rigassificatore di Priolo-Melilli, usando come argomento a fortiori il fatto che, se era stato autorizzato il rigassificatore in prossimità della Valle dei Templi, non si capivano le resistenze per quello in zona industriale.
Bisogna ricordare, a questo punto, che la Prestigiacomo è di Siracusa e proviene da una famiglia che ha grossi interessi industriali.
Ecco perché penso che sarebbe più corretto definire l'ineffabile Stefania ministra alla devastazione dell'ambiente, come ha affermato il governatore Lombardo in un'intervista all'Espresso.
Nessuno, in Italia, né tanto meno la Prestigiacomo, sembra volere apprendere la lezione dell'economista Jeremy Rifkin, consulente inascoltato della Regione Siciliana, che afferma: “Il futuro energetico sta nella rete diffusa dei piccoli impianti basati sulle rinnovabili. Un sistema di democrazia energetica che trasforma le case in fonti di energia. E' una prospettiva sicura e ha il vantaggio di costare meno”.
Peccato, aggiungo io, che vada contro le potenti lobby dell'energia più interessate ai lucrosi combustibili fossili piuttosto che al sole e al vento che non costano niente.
Caterina Busetta
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domenica 13 marzo 2011

IL SINDACO FIRETTO RICORRE AL CONSIGLIO DI STATO PER IL RIGASSIFICATORE

Il sindaco di Porto Empedocle, Calogero Firetto (detto Lillo), ricorre al Consiglio di Stato per impugnare la sentenza del Tar del Lazio del 14 dicembre 2010.
Detta in questo modo, la notizia potrebbe sembrare una normale informazione di natura giuridico-amministrativa. Non è cosi!
Non è cosi perché la sentenza impugnata riguarda l'annullamento dell'autorizzazione a costruire il rigassificatore di Porto Empedocle da 8 miliardi di mc.
Il rigassificatore, se realizzato, sarà destinato a cambiare l'assetto territoriale, urbanistico ed economico della nostra provincia. Porto Empedocle sarà una nuova Priolo, Agrigento sarà una nuova Augusta.
Pertanto, al di là di ciò che si pensa sul rigassificatore, non capisco la presunzione di Firetto che candidamente afferma "il rigassificatore è di Porto Empedocle e ce lo gestiamo noi".
Mi ricorda tanto uno slogan vetero-femminista "l'utero è mio e me lo gestisco io". E, infatti, com'era prevedibile, il Tar del Lazio ha bocciato questa presunzione per il semplice motivo che il Comune di Agrigento non è stato coinvolto, come sarebbe stato corretto, nella procedura autorizzativa.
Ma questo è solo un vizio formale. C'è però, in tutta la vicenda, un vizio sostanziale che nessuna sentenza del Consiglio di Stato potrà mai sanare -e Firetto lo sa bene-, il fatto che l'ecomostro dovrebbe sorgere sotto la casa natale di Luigi Pirandello e al confine con il parco archeologico della Valle dei Tempi, patrimonio Unesco.
Poi, vorrei fare due considerazioni a margine dell'iniziativa giurisdizionale di Firetto.
Il ricorso è stato presentato non dall'avvocato di fiducia, Girolamo Rubino, ma da un altro avvocato ed è stato presentato ancor prima di quello di Enel-Nuove Energie. Perché questo cambio di cavallo in corsa? Non sappiamo: certo il fatto in sé denota contrasti di vedute ed evidenti debolezze nella strategia difensiva.
Il perché Firetto abbia voluto anticipare l'azione difensiva di Enel, che è il suo datore di lavoro, possiamo solo ipotizzarlo.
Escludiamo l'ipotesi che abbia voluto forzare la mano ad Enel che esiterebbe, magari perché non vorrebbe passare alla storia come l'autore dell'ecomostro in zona archeologica. E lo escludiamo perché in questa materia vige l'osservanza rigorosa del principio che business is business.
Propendiamo, piuttosto, per l'ipotesi che Firetto, aspirando a fare carriera sui due fronti, quello politico e quello aziendale, voglia dimostrare a Casini, che è uno dei principali rigassificatoristi in Italia, di essere fortemente determinato a condurre in porto l'impresa industriale tanto cara al suo leader, e ad Enel di essere in possesso di tutti i requisiti per scalare velocemente gli steps (i gradini) del management aziendale della più grande industria energetica del nostro Paese. Intendiamoci: queste aspirazioni di Firetto sono legittime.
E "chissenefrega" se, realizzando l'ecomostro, verrà danneggiato irreversibilmente uno dei paesaggi più belli al mondo, quello della Valle dei Templi, e cambierà drammaticamente la destinazione del nostro territorio provinciale, da turistico-alberghiera ad industriale.
Tra breve ci saranno le elezioni amministrative a Porto Empedocle.
Metterà Firetto il rigassificatore nel suo programma elettorale, in modo che si possa discutere, non solo del "se" ma anche del "come" realizzarlo?
In un mio recente articolo ho riferito come Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, abbia affermato che il rigassificatore di Rovigo è stato progettato off-shore per “proteggere i nidi degli uccellini”.
Lui l'ha detto in modo ironico, perché, guardando solo al profitto, ha considerato che è costato tre volte di più che se progettato sulla costa.
Ecco, anche a Porto Empedocle, dove il rigassificatore è stato progettato alla distanza di 800 metri da una scuola materna, avrebbero potuto o dovuto pensare ad una soluzione off-shore, come a Rovigo, e tutelare, oltre ai nidi degli uccellini, l'asilo nido degli empedoclini.
Non credo che Firetto ne parlerà, perché già una prima volta ha negato il referendum sul rigassificatore, compensando però i "marinisi" con il referendum sul pupazzo di bronzo del commissario Montalbano, creatura dell'“inclito” Andrea Camilleri, rigassificatorista convinto anche lui.
E poi perché, avendo visto recentemente su “Teleacras” un servizio (un grande spottone) sulle cose realizzate da Firetto (molte delle quali vere), non è stato fatto cenno al rigassificatore. Quindi, penso proprio che in campagna elettorale non se ne parlerà, perché potrebbe saltar fuori che Porto Empedocle è classificata zona a rischio sismico di seconda categoria, esattamente come L'Aquila.
E, magari, dopo quello che sta succedendo in Giappone, gli elettori empedoclini potrebbero spegnere gli entusiasmi di Firetto.
Né, tanto meno, penso che ci saranno altre forze politiche, che vorranno parlare di rigassificatore in campagna elettorale, se già il Pd di Sinesio, che qualche tempo fa aveva guidato un comitato di cittadini contrari all'ecomostro, oggi dice di volere sostenere Firetto, pensando magari che è più conveniente saltare sul carro del probabile vincitore piuttosto che fare opposizione.
Gaetano Gaziano
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venerdì 11 marzo 2011

IL 17 MARZO FESTA DEGLI ITALIANI VERI

Cosa sanno Umberto Bossi e suo figlio Trota dell'unità d'Italia?
L'unità d'Italia è nata prima del 1861. Molto prima.
Bossi e il Trota forse non sanno che ad unire i diversi popoli della nostra terra in una sola nazione concorsero tre fattori fondanti di coesione, che sono unità di lingua, unità di religione e unità di cultura.
E, di certo, l'ultimo elemento deve essere molto carente in casa dell'elettrotecnico (per corrispondenza) Umberto Bossi e del figlio Trota, che ha superato gli esami di maturità “solo” dopo tre tentativi. Fu la consapevolezza del possesso di questi tre elementi fondanti a dare vita a quel fenomeno storico-idealistico che prese il nome di Risorgimento e che spinse i nostri patrioti, dai piemontesi fino ad arrivare ai picciotti siciliani garibaldini, a combattere e a morire per l'unità d'Italia.
Ma l'aspirazione all'unità italiana è più antica. Ha radici e motivazioni più lontane nel tempo.
Già Dante Alighieri auspicava, nel "De monarchia", un Impero universale di cui l'Italia fosse il centro culturale e politico, il giardin dello impero (Purg. VI, 105) e dove l'Impero avesse pari dignità a quella del Papato.
Anche Petrarca perorava un'unità italiana indipendente dalla Chiesa e ispirata al modello imperiale romano ("Lettere all’Imperatore. Carteggio con la corte di Praga. 1351-1364").
Come si può ben capire, già nel Medio Evo, ai tempi di Dante e Petrarca, cominciava ad avvertirsi una certa aspirazione all'unità, di cui i due grandi poeti si fecero interpreti.
Le sanno queste cose Bossi e suo figlio Trota? Non credo proprio.
Il processo unitario non è stato facile né indolore. Soprattutto per la gente del Sud.
Autorevoli studiosi, come Pino Aprile nel suo libro “I Terroni”, parlano pure di pagine tragiche connesse alla conquista del Sud da parte dei “liberatori” piemontesi.
Una grande disillusione investì intere fasce della popolazione meridionale, soprattutto quelle meno abbienti che, dall'unificazione del nuovo Stato italiano, si aspettavano condizioni più umane di vita.
Ricordiamo, tra gli episodi più cruenti, l'eccidio di Bronte, con lo sterminio di centinaia di contadini che avevano occupato le terre, fiduciosi in un'equa distribuzione della proprietà fondiaria.
L'esplosione del brigantaggio meridionale post-unitario fu per molti anni etichettato da alcuni storici semplicisticamente come fenomeno di delinquenza comune. Nessuno, se non qualche isolato studioso, ha considerato il fatto che molti di questi briganti, prima di darsi alla macchia, erano stati arruolati da Garibaldi e che si trasformarono in briganti, perché si sentirono traditi nel loro sogno di riscatto sociale.
Dopo l'unità d'Italia iniziò il fenomeno dell'emigrazione verso i Paesi del Nuovo Mondo, che diventò emorragia quasi inarrestabile di giovani risorse umane a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento e dal primo decennio del Novecento.
Ma, malgrado queste contraddizioni, il processo unitario è arrivato a compimento.
L'Italia non è più “un'espressione geografica” come affermava sprezzantemente il Metternich e oggi rientra tra le prime cinque o sei nazioni occidentali più progredite del mondo.
“Fatta l'Italia, bisognerà fare gli Italiani” diceva Massimo D'Azeglio. Oggi il popolo italiano è uno e fonda nell'unità di lingua, di religione e di cultura le ragioni della propria esistenza. Tranne che per qualche lumbàrd con l'elmo celtico sormontato dalle vistose corna dell'ignoranza.
Certo, esistono ancora differenze tra nord e sud, ma sono prevalentemente di natura economica. Non hanno niente a che fare con la lingua, con la religione e con la cultura.
Le differenze economiche esistono ovunque, basti pensare alla situazione invertita che è presente nella prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, dove agli stati ricchi del centro sud si contrappongono gli stati poveri del nord, ma non per questo qualche americano si sogna di non considerarli un unico stato e non c'è nessun politico ignorantone che invoca la secessione della parte più ricca di esso dal resto del Paese.
Per quanto riguarda l'inno nazionale e la bandiera, voglio ricordare al senatùr e a suo figlio Trota, che forse non lo sanno, che l'inno fu scritto da un patriota ventenne, Goffredo Mameli, che morì nel 1849 per difendere la Repubblica romana di Mazzini, Saffi e Armellini dai Francesi. Era un ragazzo sardo di appena 21 anni, era un meridionale.
Bossi e il Trota vorrebbero che l'inno fosse sostituito dal coro del Va' pensiero, ma il guaio è che i nostri bravi campioni celtici non sanno niente neppure di questa bellissima pagina musicale di Verdi, a tal punto che Bossi, intervistato mentre si recava a vedere una rappresentazione dell'Aida, disse che stava andando perché intendeva ascoltare il "Va' pensiero". Ma questa aria famosa è nel Nabucco non nell'Aida, onorevole (?) Bossi!
Per quanto riguarda la nostra bandiera, le sue origini risalgono al primo tricolore issato durante la Repubblica Cispadana a Reggio Emilia nel 1797 e poi diventato simbolo del nostro Paese.
Mi piace ricordare, al riguardo, l'episodio di Lucia Massarotto, che il 16 settembre 1997 espose dalla sua finestra, a Venezia, il tricolore come sfida al senatùr e ai suoi patetici e infantili riti celtici.
Questi sono i veri Italiani!
Signori(?)leghisti, lasciate che siano gli Italiani veri a festeggiare il 17 marzo come giornata dell'unità nazionale, quegli Italiani, cioè, che rivendicano tra i propri valori fondanti la cultura e non gli sghei, mentre voi, se volete, andate pure a festeggiare la Padania, anche se per la Società Geografica Italiana la Padania non esiste né come entità geografica né come entità etno-culturale, esiste solo come luogo di produzione del grana padano grattugiato, come grattugiato è il cervello di Umberto Bossi e di suo figlio Trota.
Gaetano Gaziano.
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mercoledì 9 marzo 2011

8 MARZO 2011 NON SOLO MIMOSE

Ormai lo sanno tutti, l'8 marzo non serve per festeggiare ma per riflettere.
E dopo anni di mimose e consumismo vuoto, le donne quest'anno sono tornate a riempire le piazze e a riunirsi per riflettere su quanto c'è ancora da fare per ridare speranza all'Italia in declino. Gli anni Sessanta e Settanta videro le donne italiane protagoniste di cambiamenti sociali, culturali e legislativi (come non pensare al nuovo diritto di famiglia) epocali che le condussero negli anni a conquistare spazi loro preclusi fino ad allora.
Oggi le donne si laureano più degli uomini e sono presenti in tutte le professioni anche quelle considerate una volta prettamente maschili come per esempio la giornalista inviata di guerra.
Sono proprio di questi giorni, ad esempio, i bei reportage di Lucia Goracci dalla Libia.
Le donne italiane non sono però presenti adeguatamente laddove si decidono le sorti e i destini del Paese, come nei palazzi della politica e del potere economico.
A tal proposito è necessario fornire qualche dato. Le donne sindaco dei comuni capoluogo sono soltanto 6. Nel Parlamento e nel governo italiano la presenza femminile è rispettivamente di appena il 20 e il 16%, a confronto del 61% della civile Finlandia.
Nei consigli di amministrazione delle grandi aziende italiane quotate in borsa, comprese quelle a partecipazione statale, come Eni ed Enel, le donne non sono quasi presenti tanto che c'è in Parlamento una proposta di legge bipartisan, che, in applicazione di una direttiva europea, prevederebbe la presenza femminile ad iniziare dal 20%.
Speriamo che questa legge vada in porto e non succeda ciò che si è verificato
nel 2005 quando fu affossata la legge sulle quote rosa che, a mo' di ponte, avrebbe potuto aiutare le donne ad essere presenti in Parlamento nella percentuale che progressivamente doveva andare dal 30 al 50%, com'è successo, ad esempio, in Norvegia.
Tutti i partiti allora, di destra e di sinistra, si adoperarono per boicottare un disegno di legge che, oltre ad essere una vittoria di civiltà, avrebbe potuto migliorare la qualità della nostra democrazia, evitando la deriva indecorosa dei nostri ultimi anni. Di quote rosa da allora non si parlò più. Né il governo Prodi né il nuovo governo Berlusconi ripresero l'argomento e ognuno, a modo suo, fece le sue quote rosa che nulla purtroppo hanno a che fare con il merito e con la dignità delle donne.
Persi questi anni, sopraggiunta una crisi economica che per l'Italia risulta più pesante e difficile da superare, con una crescita che ancora resta ferma all'1%, mentre in Germania si è superato il 3%, tutto è diventato più difficile e l'entrata delle donne nei luoghi che contano, ammesso che davvero se ne voglia oggi agevolare la partecipazione, non potrà da sola operare il cambiamento.
A questo punto è necessario, a mio avviso, se si vuole operare la svolta, unire le forze di uomini e donne per riformare la politica e perseguire veramente quel cambiamento invocato da tutti a parole.
In questa ottica bisogna: 1° diminuire il numero dei parlamentari, 2° mettere il tetto di non più di due legislature per sbarrare la strada ai professionisti della politica, 3° abbassare i costi della politica che in 10 anni scandalosamente sono aumentati del 40%.
Bisogna tornare allo spirito della nostra storia unitaria quando la politica era passione e servizio e non privilegi e vantaggi personali. Solo così saranno messi nell'agenda politica i veri problemi dei cittadini, portando al centro il lavoro, il welfare, l'ambiente e quanto serve a migliorare la qualità e le condizioni di vita di tutti, soprattutto dei giovani che, senza lavoro, stanno perfino perdendo la speranza.
Forse questa mia visione può apparire utopistica, ma penso che sia la strada obbligata per “rimettere al mondo” l'Italia.
Caterina Busetta
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