lunedì 21 luglio 2014

Vescovo, sindaco e associazioni dicono no ad una lobby dell'energia. Ma siamo in Puglia non in Sicila.

Vescovo, sindaci e associazioni dicono no ad una lobby dell'energia. Non stiamo parlando del rigassificatore di Porto Empedocle, ma del Tap (trans adriatic pipeline) un gasdotto che partendo dall'Azerbaigian dovrebbe arrivare nelle coste del Salento in Puglia. Si oppongono fortemente al progetto impattante e in contrasto con l'economia turistica di una delle zone più belle d'Italia l'arcivescovo di Lecce, mons. Domenico D'Ambrosio (nella foto), il giovane sindaco socialista del paese di Melendugno, dove dovrebbe approdare il gasdotto, e le associazioni ambientaliste. Dalle nostre parti sono corsi tutti (tranne pochissimi) ad applaudire e benedire il rigassificatore al confine della Valle dei Templi, incassando anche le compensazioni elargite da Enel. In Puglia altra sensibilità. L'arcivescovo ha affermato duramente e coraggiosamente: «Ecco, noi non possiamo lasciarci trascinare dall’opportunità, come se fossimo canne al vento. Non svendiamo il territorio. Abbiamo l’obbligo di tutelare il territorio e la nostra festa». Mi piace riportare integralmente l'articolo di Giuliano Foschini su “la Repubblica” di oggi dal titolo: “Non siamo in vendita. E il vescovo rifiuta i soldi per il patrono”. TESTO DELL'ARTICOLO: "Le canne sono queste piante sottili e dinoccolate che spuntano dalle dune di sabbia e, oggi, che è giorno di maestrale, vengono strappate e sbattute in un mare cristallino. «Ecco, noi non possiamo lasciarci trascinare dall’opportunità, come se fossimo canne al vento. Non svendiamo il territorio. Abbiamo l’obbligo di tutelare il territorio e la nostra festa». Con queste parole qualche giorno fa l’arcivescovo di Lecce, monsignor Domenico D’Ambrosio, ha spiegato che l’Italia non è tutta uguale. Se in Laguna il Consorzio nuova Venezia ha sponsorizzato di tutto per procacciarsi le simpatie dei veneziani, in Salento le cose hanno preso una piega diversa: il vescovo ha infatti bloccato un finanziamento da qualche decina di migliaia di euro che la Tap, l’azienda del gasdotto della discordia, era pronta a versare alla festa di Sant’Oronzo, il patrono dei leccesi. Tap (Trans Adriatic Pipeline) è acronimo di colosso. È la sigla che ha messo sul banco 40 miliardi di euro per realizzare un gasdotto che partendo dall’Azerbaijan dovrà arrivare qui, sulle coste del Salento, in uno dei mari più belli d’Italia. Il governo dovrà entro la fine del mese rilasciare la valutazione d’impatto ambientale necessaria per l’opera e, per questo, favorevoli e contrari nelle ultime settimane hanno riacceso il dibattito. Da mesi in questa terra non si parla d’altro: seppure Tap assicuri che non ci sarà alcun disastro, che tutto rimarrà bello com’è, in molti (dalle associazioni ambientaliste alla Regione Puglia di Vendola che ha espresso però un parere non vincolante) hanno espresso dubbi sulla scelta dell’approdo del gasdotto. L’opera arriverà proprio in uno dei territori più belli e più a vocazione turistica d’Italia: perché? «È la scelta meno impattante» dicono alla Tap, che però, visti anche gli attacchi, negli ultimi giorni si è detta possibilista su un cambio di destinazione. Le polemiche intanto sono tantissime. Tant’è che, per accattivarsi le simpatie dei salentini, la società da qualche settimana ha cominciato una campagna pubblicitaria che però non ha avuto l’esito sperato. Nei mesi scorsi l’azienda aveva offerto al comune di Melendugno cinque milioni di euro per uno studio sull’erosione delle coste, che qui è come dire la peste: la costa cede e la stagione balneare è stata a rischio fino all’ultimo. Ma il sindaco Marco Potì, giovane socialista, ha detto «no grazie: non vorremmo che qualcuno potesse pensare che si sta provando a comprare il nostro consenso». E quindi 9.328 abitanti hanno rifiutato i fondi. Sembrava una mossa estemporanea, invece era soltanto l’inizio. Dieci giorni fa, dopo le polemiche per un logo Tap esposto nella festa di Santa Domenica a Scorrano (un tripudio di luminarie), è arrivato il no del vescovo e a ruota del sindaco, Paolo Perrone, per Sant’Oronzo a Lecce. Pochi giorni dopo Tap ha presentato un calendario di eventi da sponsorizzare nell’estate salentina: feste patronali, sagre, per un budget da 350mila euro. In pochi giorni a uno a uno tutti gli organizzatori degli eventi si sono sfilati, seguendo l’esempio d Sant’Oronzo: «Tap? No, grazie», niente finanziamento. Roy Paci ha fatto saltare un concerto, poi è toccato alla Festa della Birra, poi i Sud Sound System, la festa di San Rocco, persino il capitano e la bandiera del Lecce, Fabrizio Miccoli, ha detto: «No, la Tap no». «Si è scatenato un vero e proprio assalto squadristico, che ha creato un clima di tensione e violenza incompatibile con lo spirito con cui l’azienda aveva pensato di sostenere il territorio negli eventi estivi» dicono oggi dalla società, che ha pensato anche ai gratta e vinci e a gadget per promuovere con i turisti l’immagine del Salento. Sarà, ma intanto ieri pomeriggio, sulla spiaggia degli Alimini, un venditore ambulante giurava: «Correte, correte, il cocco fresco è meglio della Tap»". GIULIANO FOSCHINI, "la Repubblica" del 21.7.2014 == Gaetano Gaziano, presidente associazione "Salviamo la Valle dei Templi". 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martedì 15 luglio 2014

SICILIA CIMITERO DI MACERIE INDUSTRIALI

La Sicilia si avvia a trasformarsi inesorabilmente in un cimitero di macerie industriali. Mentre altri paesi come Spagna, Grecia, Turchia, Egitto, eccetera, negli anni cinquanta/sessanta puntarono sul turismo programmando investimenti per costruire strutture alberghiere e infrastrutture di trasporti nelle loro regioni a vocazione turistica, in Sicilia si inseguì il sogno sbagliato industriale, puntando sulle raffinerie, sulla chimica, sul cemento e sull'automobile, senza mettere nel conto che si devastavano zone ricche di storia e di bellezze paesaggistiche , come Siracusa, Ragusa, Gela, Termini Imerese ed altre. Oggi le regioni di quei paesi, che hanno investito sul turismo, ricevono milioni di visitatori all'anno, mentre la Sicilia, che sarebbe potuta diventare la Florida d'Europa, vede arrivare solo un misero 4% del flusso turistico che ogni anno sceglie l'Italia. E di più: al danno si aggiunge la beffa. Quelle fabbriche, che avrebbero dovuto portare sviluppo economico e occupazione, oggi chiudono lasciando sul territorio caponnoni vuoti che deturpano il paesaggio e disoccupati nella disperazione. La Fiat chiude a Termini Imerese, dopo avere devastato una delle zone più ricche, dal punto di vista paesaggistico e culturale: la piana di Imera (nella foto una manifestazione dei licenziati dalla Fiat). Dopo la Fiat, l'Eni sta per chiudere le raffinerie di Gela, anche se “Pappagone” Crocetta (copyright di Pietrangelo Buttafuoco) minaccia sfracelli. Ma sappiamo già come andrà a finire. Come a Niscemi per il Muoss: prima Pappagone revocò l'autorizzazione agli Usa per realizzare l'antenna militare e poi revocò la revoca. Il guaio è che la storia non insegna niente. Si continua scelleratamente a perseguire un progetto industriale che non serve alla Sicilia, non serve all'Italia, ma serve solo a chi realizza impianti industriali, come nel caso del rigaassificatore da 8 miliardi di mc al confine della Valle dei Templi di Agrigento, patrimonio Unesco, che servirà solo ad Enel, che lo deve costruire, in quanto incasserà gli aiuti di Stato (70% dei ricavi di riferimento per vent'anni anche se non dovesse rigassificare un solo mc di gas) che graveranno sulle bollette degli italiani. Impianto inutile, in quanto è diminuito notevolmente il fabbisogno energetico e i 3 rigaassificatori esistenti (Panigaglia, Livorno e Rovigo) lavorano molto al di sotto delle loro potenzialità produttive, Ma, almeno la Fiat ed Eni hanno assicurato per decenni un discreto livello occupazionale, anche se oggi lasciano solo macerie industriali. Ma il rigassifictore, per la stessa propaganda di Enel, assecondata da politici e sindacalisti, in buona o mala fede (per lo più in mala), a regime dovrebbe occupare appena 70-80 addetti. E non è detto che siano dipendenti assunti tra le forze locali. A Rovigo, su circa 70 dipendenti, solo 1 risulta essere rovigino. Il premier Renzi ama sostenere la sua politica con lo slogan “CAMBIARE VERSO”. E' lecito attendersi dal governo Renzi un cambiamento di verso nella direzione di una politica che faccia veramente gli interessi del Paese e che attui un'autentica tutela del patrimonio culturale e paesaggistico? Gaetano Gaziano, presidente associazione "Salviamo la Valle dei Templi di Agrigento". Continua a leggere...

venerdì 4 luglio 2014

Italo Calvino: "Apologo sull'onestà nel paese dei corrotti"

Ricordiamo l’apologo profetico di Calvino sull'onestà nel paese dei corrotti, scritto nel 1980. Non sappiamo se nel business del rigassificatore vi siano state pratiche corruttive, sappiamo che su di esso persistono pesanti ombre, dal momento che risultano indagati dalla Dda di Palermo l'amministratore delegato della società "Nuove Energie" (Enel) e un capocantiere per frode nelle pubbliche forniture con l'aggravante di avere favorito la mafia. APOLOGO SULL'ONESTA' NEL PAESE DEI CORROTTI di Italo Calvino* C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita. Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri. Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita. In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla. Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile. Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è. * da "la Repubblica", 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori Nota biografica – Italo Calvino nasce a Santiago de Las Vegas (Cuba) nel 1923 e si trasferisce con la famiglia nel 1925 a San Remo. Si unisce ai partigiani durante la II Guerra Mondiale e, in questo contesto, nasce la sua prima opera “I sentieri dei nidi di ragno” (1947). Successivamente diventa un attivista del Pci, una militanza politica proseguita fino al 1956. Considerato uno dei più interessanti autori contemporanei, negli anni Settanta comincia a collaborare come editorialista al “Corriere della sera” prima e “la Repubblica” poi. Muore a Castiglione della Pescaia nel 1985. Tra le sue opere, la trilogia dei Nostri Antenati “Il cavaliere inesistente”, “Il barone rampante”, “Il visconte dimezzato”, “Marcovaldo”, “Le cosmicomiche”, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, fino al saggio “Lezioni americane” uscito postumo nel 1989. Continua a leggere...