"LA VERITA' DI DON GIOVANNI"
Peggio di così non mi potevano trattare il signor Mozart e il signor Da Ponte. Dipinto come un mariolo e sprofondato all’inferno, con tutti i vestiti.
La mia unica preoccupazione sarebbe stata, per loro, quella di “farmi” le belle damine del mio tempo.
Di infoltire il “catalogo”, che teneva il mio servo, quel birbante di Leporello.
E chi lo nega?
Solo che quella, che era per me una scelta esistenziale, sarebbe stata, per gli “illustrissimi” autori, una sconveniente e deplorevole condotta, da condannare tout court.
Ma i veri immorali, credetemi, erano loro: pieni di tic, di complessi e di condizionamenti.
Il signor Amadeus, per esempio, soffriva di un complesso di Edipo grande quanto una casa, che si portava appresso dalla nascita.
Per la verità, non era tutta colpa sua: quel suo odioso padre, Leopold, se lo era trascinato dietro, appena bambino, a esibirsi, assieme alla sorellina Nannarel, nelle più importanti corti europee, come un fenomeno da baraccone; quello lì, per me, avrebbero dovuto impiccarlo per sevizie reiterate all’infanzia. Però lui, Amadeus, non riuscì mai a scrollarsi di dosso (e ne aveva tutte le qualità) quella terribile figura paterna.
A tal punto che la proietta nel personaggio del Commendatore, terribile vendicatore di quel libertino di don Giovanni, che, poi, sarei io.
In effetti, sono stato un libertino.
E me ne vanto!
Ma nell’accezione più nobile del termine.
Io, infatti, sposai in toto la filosofia del libertinismo, che vuol dire insofferenza a tutte le regole imposte dall’alto.
Libertà totalizzante, dunque. Prima tra tutte, quella in campo sessuale. Sono stato il primo autentico predicatore del libero amore, anticipando i tempi di almeno due secoli. E ne sono stato un vero e convinto attuatore e ambasciatore.
La mia fama ha travalicato quella dello stesso Mozart e del suo librettista. Quest’ultimo, poi, Lorenzo Da Ponte, ve lo raccomando! Lui, però, non era un complessato come Mozart.
Peggio: era un furbo! Professava il suo moralismo bigotto, da cattolico convertito qual era.
Doveva dimostrare “all’esterno” la sua totale adesione alla religione cattolica, a cui era approdato per opportunismo.
Quando Mozart gli chiese un libretto da musicare, non gli parve vero. Tirò fuori dal cassetto il dramma “El burlador de Sevilla” del signor Tirso De Molina, intriso dei più beceri principi gesuitici della Controriforma, e ha creato, con Mozart, questo grande capolavoro del “Don Giovanni”.
E chiamalo capolavoro! Mi hanno dipinto come un mostro. Un fatuo bellimbusto, ossessionato esclusivamente dal sesso.
Il cavaliere Giacomo Casanova, con me il più degno rappresentante del libertinismo in senso assoluto, che era presente alla prima di Praga, si alzò indignato e se ne andò sbattendo la porta.
Lasciate invece che sia io, Don Giovanni, a raccontarvi come sono andate in effetti i fatti, per averli vissuti in prima persona.
Occorre cominciare dall’inizio della storia. Siamo al primo atto dell’opera. Io me ne sto a corteggiare (ricordate?) la bella Zerlina, procace e avvenente contadinotta, promessa sposa a quello zotico di Masetto.
Io le propongo di seguirmi nel mio casino di campagna, sussurrando: “Là ci darem la mano, là mi dirai di sì”.
Lei esita. Oppone una debole resistenza: “Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor”.
Insisto: “Vieni mio bel diletto. Io cangerò tua sorte”.
Alla fine cede e, mano nella mano, ci avviamo al nido d’amore: “Andiam, andiam mio bene a ristorar le pene d’ un innocente amor”.
A questo punto, secondo gli “illustrissimi” autori, interviene Donna Elvira, una mia vecchia conquista sedotta e abbandonata (come tutte le altre del resto), che interrompe bruscamente il nostro idillio e manda all’aria l’ultima mia avventura. Quindi sarei andato in bianco.
Sciocchezze!
Niente di più falso. A me, se permettete a Don Giovanni, una cosa simile non è mai successa.
Ed ecco il seguito. Quello vero: Zerlina e io, presi da focosa passione, ci avviamo nel mio casino di campagna, e lì trascorriamo dei momenti indimenticabili.
Che notte, ragazzi!
Il confortevole casino è perennemente attrezzato per le mie improvvise incursioni galanti. Non manca mai niente alla bisogna. Soprattutto il vino. C’è sempre una buona scorta di “eccellente marzimino”. Il vino che io, a detta degli “illustrissimi” autori, avrei dovuto offrire, nel secondo atto, al Commendatore da me invitato a cena.
Ma vi sembro proprio il tipo da sprecare un vino così nobile, come il marzimino, per un “convitato di pietra”?
Vi dico io l’uso che ne ho fatto.
Quattro bottiglie ce ne siamo scolate, Zerlinuccia e io, in quella notte da sballo, tra un amplesso e l’altro.
Vino e amore vanno straordinariamente a braccetto, credetemi. Una sola espressione vera mi hanno messo in bocca gli “illustrissimi" autori: è quando, nel secondo atto, inneggio: “Vivan le femmine, viva il buon vino, sostegno e gloria d’ umanità”. In ciò almeno non si sbagliarono.
Questa, amici miei, è in conclusione la vera ed autentica versione dei fatti.
Parola di Don Giovanni!
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E questo è il quinto racconto tratto dal mio libro "Il Bacchino ubriaco e altre storie" edito da Excogita Milano.
Parla della vicenda del Don Giovanni, da me rivisitata.
Gaetano Gaziano
tanogaziano@yahoo.it.
sabato 10 dicembre 2011
LA VERITA' DI DON GIOVANNI
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