Enea si sentiva stanco. Nell’animo più che nel fisico.
Molto aveva errato per terre e per mari sconosciuti, alla ricerca del luogo ideale dove ricostruire l’amata Troia, messa a ferro e a fuoco dagli invasori Achei.
Tante e gravi pene aveva patito nel suo lungo errare. E quando pensava già di essere approdato nel luogo giusto, ecco il fato e i venti sospingerlo per altre mete, secondo un disegno divino, che faceva fatica a capire e che rendeva il suo viaggio una sorte di espiazione, un tragitto dell’anima verso la salvezza.
E, mentre una fresca brezza mattutina alleviava la sua fatica di marinaio stanco e sfiduciato al timone della barca, non poteva fare a meno di tornare, col ricordo, ai suoi primi anni felici vissuti da principe pastore sul monte Ida, lontano dai fasti della reggia di Priamo.
Sì è vero, a corte lo consideravano con molta sufficienza, come appartenente a un ramo collaterale e secondario della nobiltà troiana. Ma a Enea non importava più di tanto. Era felice ugualmente. Gli bastava poco per essere soddisfatto: l’amata Creusa, moglie fedele e discreta, il dolce figlioletto Ascanio e tutta la famiglia patriarcale, all’interno della quale il padre Anchise non faceva certamente pesare il suo ruolo di capo tribù.
Gestiva, con la sua gente, i copiosi armenti di proprietà, ricavando dal commercio delle pelli e della lana sufficienti risorse per il mantenimento della numerosissima famiglia. Di certo non sentiva la mancanza degli agi e del lusso della vita di corte, a Troia. Ne faceva volentieri a meno.
Aveva abitudini essenziali e gratificanti: vita all’aria aperta, composizioni poetiche al suono del flauto, cibo sano e vino buono, che non mancava mai alla sua mensa. Erano stati proprio i lontani antenati dei contadini della sua terra, l’Anatolia, a produrre per primi quel nettare divino, con il procedimento da loro inventato di pigiare l’uva matura a piedi scalzi, e che avevano chiamato enòs, vino. Ed Enea ne era un convinto estimatore e un discreto consumatore.
Di queste cose semplici era fatta la sua vita.
Un giorno, di colpo, il dramma: l’invasione degli Achei e l’inevitabile guerra.
Enea inizialmente, capendo le vere ragioni dell’aggressione, che erano dettate dal controllo dello stretto dell’Ellesponto, crocevia di commerci verso l’oriente (non certo per affari di donne), aveva cercato di convincere i Troiani a concludere una pace equa con i greci invasori, dato il loro strapotere militare e l’impossibilità di contrastarli.
Scelta comunque la via della guerra, si era battuto con valore al pari del generoso e nobile Ettore.
E ora, mentre guardava l’orizzonte lontano, aveva ancora negli occhi le fiamme che bruciavano la città, presa dal nemico con l’inganno, e il ricordo si faceva lancinante dolore, al pensiero dell’adorata moglie Creusa perita in quell’incendio.
E poi la fuga verso occidente, con il padre ormai vecchio e il figlio Ascanio, alla ricerca di un nuovo sito dove ricostruire la propria esistenza, però non trovando mai un luogo come lui lo sognava: accogliente e ridente come le dolci vallate del monte Ida.
Il suo viaggio, che sembrava non finire mai, era stato pure costellato da drammi e lutti che avevano messo a dura prova la sua forte tempra di combattente.
Avrebbe volentieri terminato il suo lungo peregrinare a Cartagine, dove aveva vissuto l’appassionante storia d’amore con Didone, regina di Libia. Ma aveva dovuto piegarsi al volere di Zeus, che aveva per lui un diverso progetto, e riprendere il cammino per terre sconosciute, lasciando nella disperazione l’infelice Didone, che, per il dolore, si era suicidata.
Anche in terra di Trinacria avrebbe voluto fermarsi, ma era stato scoraggiato dall’infausto presagio della morte del padre Anchise a Drepano, sulla costa occidentale dell’isola.
«Quando avrà fine questo mio viaggio, interminabile e amaro?» pensava, mentre il suo sguardo andava teneramente ad Ascanio, che dormiva tranquillo a prua, all’aperto, su un improvvisato giaciglio di scotte.
I suoi tristi pensieri svanirono alla vista di una sottile linea scura, all’orizzonte, che s’ingrandiva, man mano che la barca si avvicinava veloce, spinta dal vento in poppa.
«E’ la terra!» pensò commosso.
Svegliò immediatamente Ascanio, e chiamò a raccolta lo sparuto numero di compagni di viaggio, che erano sopravvissuti alle varie peripezie.
«Chissà, potrebbe essere la volta buona» pensò, mentre già cominciava a delinearsi con distinzione il profilo della costa e del paesaggio retrostante, che era fatto di dolci colli verdeggianti e assolati.
Giunti sotto costa, Enea individuò rapidamente un’insenatura naturale e ordinò ai suoi uomini di ammainare le vele, per accostarsi a remi e per ancorarvi la barca.
Mentre si avvicinavano, notò sugli scogli un gruppo di giovani donne, che, festanti, sventolavano dei veli variopinti.
Approdati a terra, le giovani si avvicinarono, con fare amichevole, agli stranieri nuovi arrivati.
«Sono Enea, principe troiano, figlio di Anchise, e vengo su questa terra, con mio figlio Ascanio e con questi compagni di viaggio, con intenzioni pacifiche» si affrettò a presentarsi alle accoglienti ospiti.
«Benvenuto, straniero, a te e ai tuoi compagni! E, poiché venite con intenzioni non ostili, sarete ben accolti» fu il saluto della più giovane di loro.
«Posso conoscere il tuo nome e quello del posto dove siamo approdati?» chiese, trepidante, Enea all’avvenente fanciulla.
«Certamente» rispose lei, con un largo sorriso, «mi chiamo Lavinia e sono la figlia di Laurento, re di queste terre, che hanno il nome di Enòtria, perché ricche di vigneti e di buon vino.
Dicendo così, fece cenno a un’ancella, che si affrettò a offrire ai nuovi arrivati delle brocche di vino, in segno di ospitalità.
Enea bevve lentamente, per assaporare ogni goccia di quel nettare.
«E’ il gusto del nostro vino!» gridò ai suoi compagni. «E’ identico al sapore del vino di Troia! Padre Zeus non poteva darmi segnale più chiaro che il nostro errare è arrivato finalmente a conclusione»
Dopo di che si chinò sulla terra e la baciò e, con gli occhi lucidi, rivolto ai suoi disse:
«Ecco la nostra nuova patria! Qui costruiremo le case per noi e per i nostri figli, in pace con i vicini. Il nostro viaggio è finito!»
Gaetano Gaziano
tanogaziano@yahoo.it
Questo è il sesto racconto tratto sempre dal mio libro "Il Bacchino ubriaco e altre storie", Edizioni Excogita Milano.
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