Siamo in estate e voglio offrire ai lettori di questo blog qualcuno dei miei racconti che parlano di vino, d'amore, di gioia di vivere.
La raccolta completa dal titolo "Il Bacchino ubriaco e altre storie" è pubblicata dall'editrice Excogita di Milano, che gentilemnte concede di inserirli in questo blog.
Ed ecco il primo dei racconti.
"Est! Est!! Est!!!"
Sua Eminenza, Giovanni Defùk, era un intenditore di vini. E non solo.
Vescovo cattolico di Magonza, gestiva la sua diocesi con modi garbati e con fare bonario.
Nella sua diocesi, per esempio, non erano mai stati celebrati processi contro streghe o eretici (e siamo in pieno Medio Evo).
«Sono farina del diavolo!» diceva delle lettere anonime, che pure gli arrivavano copiose, a denunciare pratiche di stregoneria o di eresia.
Il palazzo del vescovado era aperto a tutti, dal Borgomastro all’ultimo contadino, ogni giorno della settimana, tranne in alcuni giorni, durante i quali l’accesso era rigorosamente “verboten”.
«Sua Eminenza fa gli “esercizi spirituali”» era la motivazione ufficiale del segretario personale, frate Martino.
Quando era “in ritiro”, Sua Eminenza amava rinfrescare i momenti di “meditazione” con l’ottimo bianco del Reno, raffreddato con la neve, nelle cantine del vescovado.
E ad assistere Sua Eminenza, durante gli “esercizi spirituali”, erano sempre alcune suore di clausura non giovanissime, quelle più mature.
«Sono le più esperienti!» confidava malizioso al segretario Martino, che in tale circostanza assumeva anche le vesti di coppiere.
L’aspetto rilassato e soddisfatto di mons. Defùk, alla fine degli “esercizi”, ne testimoniava la validità e l’efficacia.
Le guance arrossate e l'aspetto rubizzo la dicevano lunga sullo stato di generale benessere procuratogli dalla lunga attività di “raccoglimento”.
Lo sguardo sorridente e furbo aggiungeva simpatia al suo volto rotondo e pacioso, espressione di serenità e bonomia.
L’Imperatore Enrico V conosceva bene l’attitudine di mons. Defùk a ritirarsi spesso in “meditazione”. Ma gli voleva bene anche per questo.
E, poi, in quel preciso momento storico aveva bisogno delle sue abili doti diplomatiche, di cui gli faceva ampio credito.
Correva l’anno del Signore 1111 e quell’intollerante, per lui, papa Pasquale II, a Roma, non si decideva a legittimarne l’autorità imperiale, rifiutandosi di incoronarlo come Imperatore del Sacro Romano Impero.
«Andremo a Roma a farmi incoronare!» disse all’esterrefatto vescovo.
«Non capisco “quell’andremo”» disse mons. Defùk all’Imperatore. «Cosa devo venirci a fare io a Roma, Maestà?».
«Voi siete il mio più fidato consigliere diplomatico» rispose, deciso, l’Imperatore.
«Sfrutterò al meglio la vostra abilità a trattare con Roma. Vorrei evitare di usare altri argomenti forse più convincenti, ma che ritengo, al momento, meno opportuni».
Quando parlava di “argomenti più convincenti”, si riferiva al potente esercito con cui si apprestava a scendere in Italia.
«In verità, non mi sento di affrontare un viaggio così faticoso» insistette timidamente mons. Defùk, riluttante a lasciare le comodità e gli agi della sua tranquilla diocesi di Magonza.
«Ci tengo!» disse, risoluto, l’imperatore. «E, poi, l’Italia è anche terra di buon vino e di belle donne» continuò, sapendo di colpire nel segno.
«Davvero?» chiese, curioso, monsignore, che non aveva mai messo il naso fuori dai confini della sua diocesi.
«Il migliore e le più belle del mondo!» fece l’Imperatore, strizzandogli l’occhio.
«Verrò!» disse, allora, convinto il prelato.
Il viaggio, intrapreso verso l’Italia, doveva essere per l’Imperatore una missione diplomatica. Per mons. Defùk un piacere dello spirito e… del corpo.
E, in effetti, fu entrambe le cose.
L’Imperatore, assistito dal suo consulente diplomatico, man mano che si avvicinava a Roma, preparava e affinava le argomentazioni politico-giuridiche per convincere Sua Santità a legittimare la sua aspirazione a essere incoronato. A ogni buon conto, aveva sempre l’argomento di riserva: il suo potente esercito.
Mons. Defùk, deciso a godere dei vantaggi turistico-gastronomico-enologici della spedizione, più che di quelli politici, non avendo informazioni precise sul vino e sull’ospitalità delle varie taberne e hostarie che incontravano lungo il loro itinerario, si faceva precedere dal proprio segretario, il frate-coppiere Martino, a saggiarne la bontà.
Il segnale convenuto, dell’eseguita indagine, era tanto semplice quanto originale: un cartello con la scritta “Est!”, affisso dallo scaltro frate sulla porta della locanda visitata, era un messaggio in codice, ma eloquente per mons. Defùk, che buono era il vino; che altrettanto buona era l’ospitalità. E per “ospitalità” sapeva bene cosa intendesse il suo padrone.
La doppia scritta “Est! Est!!” stava a indicare il livello di eccellenza dei “prodotti” testati.
Questa semplice ma genialissima precauzione mise al riparo il nostro monsignore da indesiderate quanto spiacevoli sorprese e gli consentì di apprezzare la bontà dei vini italiani e l’ “ospitalità” delle compiacenti locandiere, preventivamente selezionate.
Giunta la spedizione nello Stato della Chiesa, alle porte del ridente e assolato paesino di Montefiascone, mons. Defùk si congedò dall’Imperatore, che, come al solito, veniva ospitato dalle potenti famiglie aristocratiche, che incontrava lungo il viaggio.
«Non capisco questa vostra predilezione per le locande» osservò l’Imperatore. «Non stareste meglio nella casa nobiliare, che ci ospita in questo delizioso paese?».
«No, Maestà! Preferisco le locande. Mi consentono di conoscere meglio la gente del luogo» rispose, ammiccando, monsignore e si avviò alla locanda, precedentemente “esplorata” da fra’ Martino.
Arrivato al centro del paese, in compagnia del suo fedele segretario, monsignore individuò subito la dimora prescelta, in quanto il solito cartello faceva bella mostra di sé sul portone d’ingresso della locanda “ALLA POLLASTRA ZOPPA”.
Avvicinatosi, mons. Defùk lesse, con sorpresa, la scritta “Est! Est!! Est!!!”.
«Come mai tre volte est?» chiese, curioso, al suo segretario.
«Vedrete, Eminenza, e capirete!» rispose, sornione, fra’ Martino.
Annunciato il loro arrivo dal frate, venne ad accogliere gli ospiti una splendida locandiera dall’apparente età di 30-35 anni, occhi neri, ardenti come tizzoni.
«Benvenuti, sono la sora Gina, la proprietaria della locanda, accomodatevi!» disse, con il sorriso più accattivante di questo mondo.
«Ecco spiegato il triplice est!» pensò, compiaciuto, monsignore.
La sora Gina li precedette, per accompagnarli nei rispettivi alloggiamenti.
Monsignore, mentre la seguiva, studiò con occhio di esperto il corpo dell’avvenente locandiera, apprezzandone le procaci forme, che pure si intuivano, sotto l’abbondante veste. Notò, inoltre, che era leggermente claudicante, ma che la sora Gina mascherava abilmente il lieve difetto fisico, ancheggiando con civetteria, cosa che la rendeva ancora più attraente.
«Questa donna deve essere davvero eccezionale,» pensò il prelato buongustaio, «se, con spirito di grande autoironia, non ha esitato a dare alla sua locanda, il nome di “ALLA POLLASTRA ZOPPA”».
La sora Gina sistemò fra’ Martino a piano terra, in una calda stanza adiacente alla cucina, e monsignore di sopra, in una confortevole camera arredata con gusto e sobrietà, accanto alla propria stanza da letto.
«Hic manebimus optime!» pensò mons. Defùk, mentre sistemava i suoi bagagli.
Fra’ Martino si prese cura di fare sloggiare i pochi avventori presenti in quel momento nella locanda, con il convincente argomento dell’elargizione di qualche moneta d’oro, e di affiggere prontamente sulla porta di ingresso la scritta “Locanda occupata dai dignitari di corte di Sua Maestà, l’Imperatore Enrico V”.
Mons. Defùk trascorse “i giorni più belli della mia vita”, come annotò nel suo diario di viaggio, oggi conservato tra i documenti “Top Secret” del Vaticano, accudito esclusivamente dalla bella Gina e dal frate coppiere.
“Mai, prima d’ora, avevo gustato un vino così eccellente come quello che si produce in queste terre”.
Niente è riferito nel diario (si pensa per discrezione) sulle amorevoli cure, che prodigò la sora Gina per rendere “indimenticabile” il viaggio di monsignore.
La leggenda ci tramanda, comunque, che i vicini, nei momenti di maggiore “trasporto mistico” della coppia, abbiano percepito inequivocabili gridolini di benessere “Est! Est!! Est!!! ”, provenienti dalla stanza da letto di mons. Defùk.
Dopo tre giorni, l’Imperatore, spazientito, per aver dovuto rallentare la marcia verso Roma a causa delle “meditazioni” del proprio consigliere diplomatico, lo mandò a chiamare categoricamente.
«Perdonatemi, Maestà, ho dovuto approfondire le argomentazioni giuridiche...».
«Conosco bene la vostra attività di “approfondimento”!» lo bloccò, con un sorriso, l’Imperatore. «Basta, si va a Roma!».
La discussione con Pasquale II, sulla controversia dell’incoronazione, non fu né semplice né sempre improntata a comportamenti diplomatici. Tutt’altro. A volte fu, addirittura, costellata da momenti drammatici, anche cruenti, perché non era limitata alla sola formalità del riconoscimento papale dell’autorità imperiale di Enrico V, ma era, altresì, collegata con annose problematiche di spartizione di interi Stati, tra le potenti famiglie reali europee del tempo.
Alla fine, comunque, prevalse il buon senso e venne trovato un compromesso onorevole per entrambe le parti, grazie anche all’abile opera di mediazione di mons. Defùk.
La cerimonia di incoronazione, celebrata a Roma il 13 aprile del 1111, fu sfarzosa: l’imperatore Enrico V era raggiante, gongolante e soddisfatto il suo consigliere diplomatico.
A conclusione della cerimonia, mons. Defùk chiese e ottenne udienza privata da Papa Pasquale II.
«Santità,» esordì, con deferenza, «ho da rappresentarvi un’esigenza, che non è solo mia, per la verità, ma del clero di tutto il mondo».
«Dite pure!» lo incoraggiò, con un largo sorriso, il Papa, che, durante le giornate di discussione della controversia imperiale, aveva avuto occasione di apprezzarne le notevoli qualità diplomatiche.
«L’obbligo del celibato è diventato pesante e insostenibile! Penso che potremmo svolgere il nostro ministero più adeguatamente, se le nostre giornate fossero riscaldate dall’amore di una compagna…» mons. Defùk iniziò a perorare la causa che più gli premeva, con fare accorato, ma osservò che Sua Santità, a quelle parole, si irrigidì subito, diventando scuro in volto.
«Le tradizioni vanno rispettate. Il nostro compito è quello di servire Cristo e la Chiesa!» lo troncò, con durezza, Pasquale II.
«Capisco» rispose mons. Defùk, inghiottendo amaro.
«Pasquale II da questo orecchio non ci sente!» pensò, osservando che, a differenza di quasi tutti i pontefici che l’avevano preceduto sul soglio di Pietro, quel Papa amava farsi assistere da giovani e aitanti chierici, piuttosto che da suore.
E non insistette.
Sulla strada del ritorno, giunti che furono a Montefiascone, monsignore prese la sua storica decisione.
«Maestà, il mio viaggio è finito, mi fermo in questi luoghi dove ho trovato amore, felicità ed eccellente vino!» comunicò al suo Imperatore.
«Non posso darvi torto!» fu la risposta compiaciuta di Enrico V, che lo nominò barone dell’Impero, per compensarlo sia della rinuncia al posto di vescovo di Magonza che per il successo della missione diplomatica.
Mons. Defùk trascorse il resto della sua vita a Montefiascone, accanto alla sua adorata Gina, nella tenuta, che aveva comprato con la dote dell’Imperatore, coltivando la terra e, soprattutto, producendo quell’ottimo vino, che, da quel momento e in suo onore, porta il nome di “Est! Est!! Est!!!”, di cui fu anche il più convinto estimatore e consumatore.
Monsignore si fece amare dalla gente del luogo per l’attività di grande benefattore e, alla sua morte, per aver donato tutti i propri beni alla comunità di Montefiascone, fu sepolto nella chiesa romanica di S.Flaviano, a testimonianza del loro affetto.
Sulla pietra tombale, è riportata l’iscrizione “Propter nimium est est est hic Johannes de Funk dominus meus mortuus est”, che, senza molte perifrasi, allude alla morte felice di monsignore, avvenuta dopo un’abbondante libagione del suo vino preferito.
La lapide non lo riporta, ma tradizione vuole che nella stessa tomba sia sepolta la sua amata, la sora Gina.
Ogni anno, a ricordo del grande vescovo-barone-benefattore e della sua sposa, viene versato, in una notte di plenilunio di agosto, sulla loro tomba un barilotto dell’ottimo vino locale da parte di quei montefiasconesi, che, durante l’anno, si siano maggiormente distinti a onorare degnamente il dio Bacco. E, ogni volta, qualcuno di loro giura di avere sentito, provenienti dalla tomba, gridolini di benessere “Est! Est!! Est!!!”.
Gaetano Gaziano.
tanogaziano@yahoo.it
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lunedì 27 giugno 2011
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