Cosa sanno Umberto Bossi e suo figlio Trota dell'unità d'Italia?
L'unità d'Italia è nata prima del 1861. Molto prima.
Bossi e il Trota forse non sanno che ad unire i diversi popoli della nostra terra in una sola nazione concorsero tre fattori fondanti di coesione, che sono unità di lingua, unità di religione e unità di cultura.
E, di certo, l'ultimo elemento deve essere molto carente in casa dell'elettrotecnico (per corrispondenza) Umberto Bossi e del figlio Trota, che ha superato gli esami di maturità “solo” dopo tre tentativi. Fu la consapevolezza del possesso di questi tre elementi fondanti a dare vita a quel fenomeno storico-idealistico che prese il nome di Risorgimento e che spinse i nostri patrioti, dai piemontesi fino ad arrivare ai picciotti siciliani garibaldini, a combattere e a morire per l'unità d'Italia.
Ma l'aspirazione all'unità italiana è più antica. Ha radici e motivazioni più lontane nel tempo.
Già Dante Alighieri auspicava, nel "De monarchia", un Impero universale di cui l'Italia fosse il centro culturale e politico, il giardin dello impero (Purg. VI, 105) e dove l'Impero avesse pari dignità a quella del Papato.
Anche Petrarca perorava un'unità italiana indipendente dalla Chiesa e ispirata al modello imperiale romano ("Lettere all’Imperatore. Carteggio con la corte di Praga. 1351-1364").
Come si può ben capire, già nel Medio Evo, ai tempi di Dante e Petrarca, cominciava ad avvertirsi una certa aspirazione all'unità, di cui i due grandi poeti si fecero interpreti.
Le sanno queste cose Bossi e suo figlio Trota? Non credo proprio.
Il processo unitario non è stato facile né indolore. Soprattutto per la gente del Sud.
Autorevoli studiosi, come Pino Aprile nel suo libro “I Terroni”, parlano pure di pagine tragiche connesse alla conquista del Sud da parte dei “liberatori” piemontesi.
Una grande disillusione investì intere fasce della popolazione meridionale, soprattutto quelle meno abbienti che, dall'unificazione del nuovo Stato italiano, si aspettavano condizioni più umane di vita.
Ricordiamo, tra gli episodi più cruenti, l'eccidio di Bronte, con lo sterminio di centinaia di contadini che avevano occupato le terre, fiduciosi in un'equa distribuzione della proprietà fondiaria.
L'esplosione del brigantaggio meridionale post-unitario fu per molti anni etichettato da alcuni storici semplicisticamente come fenomeno di delinquenza comune. Nessuno, se non qualche isolato studioso, ha considerato il fatto che molti di questi briganti, prima di darsi alla macchia, erano stati arruolati da Garibaldi e che si trasformarono in briganti, perché si sentirono traditi nel loro sogno di riscatto sociale.
Dopo l'unità d'Italia iniziò il fenomeno dell'emigrazione verso i Paesi del Nuovo Mondo, che diventò emorragia quasi inarrestabile di giovani risorse umane a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento e dal primo decennio del Novecento.
Ma, malgrado queste contraddizioni, il processo unitario è arrivato a compimento.
L'Italia non è più “un'espressione geografica” come affermava sprezzantemente il Metternich e oggi rientra tra le prime cinque o sei nazioni occidentali più progredite del mondo.
“Fatta l'Italia, bisognerà fare gli Italiani” diceva Massimo D'Azeglio. Oggi il popolo italiano è uno e fonda nell'unità di lingua, di religione e di cultura le ragioni della propria esistenza. Tranne che per qualche lumbàrd con l'elmo celtico sormontato dalle vistose corna dell'ignoranza.
Certo, esistono ancora differenze tra nord e sud, ma sono prevalentemente di natura economica. Non hanno niente a che fare con la lingua, con la religione e con la cultura.
Le differenze economiche esistono ovunque, basti pensare alla situazione invertita che è presente nella prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, dove agli stati ricchi del centro sud si contrappongono gli stati poveri del nord, ma non per questo qualche americano si sogna di non considerarli un unico stato e non c'è nessun politico ignorantone che invoca la secessione della parte più ricca di esso dal resto del Paese.
Per quanto riguarda l'inno nazionale e la bandiera, voglio ricordare al senatùr e a suo figlio Trota, che forse non lo sanno, che l'inno fu scritto da un patriota ventenne, Goffredo Mameli, che morì nel 1849 per difendere la Repubblica romana di Mazzini, Saffi e Armellini dai Francesi. Era un ragazzo sardo di appena 21 anni, era un meridionale.
Bossi e il Trota vorrebbero che l'inno fosse sostituito dal coro del Va' pensiero, ma il guaio è che i nostri bravi campioni celtici non sanno niente neppure di questa bellissima pagina musicale di Verdi, a tal punto che Bossi, intervistato mentre si recava a vedere una rappresentazione dell'Aida, disse che stava andando perché intendeva ascoltare il "Va' pensiero". Ma questa aria famosa è nel Nabucco non nell'Aida, onorevole (?) Bossi!
Per quanto riguarda la nostra bandiera, le sue origini risalgono al primo tricolore issato durante la Repubblica Cispadana a Reggio Emilia nel 1797 e poi diventato simbolo del nostro Paese.
Mi piace ricordare, al riguardo, l'episodio di Lucia Massarotto, che il 16 settembre 1997 espose dalla sua finestra, a Venezia, il tricolore come sfida al senatùr e ai suoi patetici e infantili riti celtici.
Questi sono i veri Italiani!
Signori(?)leghisti, lasciate che siano gli Italiani veri a festeggiare il 17 marzo come giornata dell'unità nazionale, quegli Italiani, cioè, che rivendicano tra i propri valori fondanti la cultura e non gli sghei, mentre voi, se volete, andate pure a festeggiare la Padania, anche se per la Società Geografica Italiana la Padania non esiste né come entità geografica né come entità etno-culturale, esiste solo come luogo di produzione del grana padano grattugiato, come grattugiato è il cervello di Umberto Bossi e di suo figlio Trota.
Gaetano Gaziano.
venerdì 11 marzo 2011
IL 17 MARZO FESTA DEGLI ITALIANI VERI
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