Ormai lo sanno tutti, l'8 marzo non serve per festeggiare ma per riflettere.
E dopo anni di mimose e consumismo vuoto, le donne quest'anno sono tornate a riempire le piazze e a riunirsi per riflettere su quanto c'è ancora da fare per ridare speranza all'Italia in declino. Gli anni Sessanta e Settanta videro le donne italiane protagoniste di cambiamenti sociali, culturali e legislativi (come non pensare al nuovo diritto di famiglia) epocali che le condussero negli anni a conquistare spazi loro preclusi fino ad allora.
Oggi le donne si laureano più degli uomini e sono presenti in tutte le professioni anche quelle considerate una volta prettamente maschili come per esempio la giornalista inviata di guerra.
Sono proprio di questi giorni, ad esempio, i bei reportage di Lucia Goracci dalla Libia.
Le donne italiane non sono però presenti adeguatamente laddove si decidono le sorti e i destini del Paese, come nei palazzi della politica e del potere economico.
A tal proposito è necessario fornire qualche dato. Le donne sindaco dei comuni capoluogo sono soltanto 6. Nel Parlamento e nel governo italiano la presenza femminile è rispettivamente di appena il 20 e il 16%, a confronto del 61% della civile Finlandia.
Nei consigli di amministrazione delle grandi aziende italiane quotate in borsa, comprese quelle a partecipazione statale, come Eni ed Enel, le donne non sono quasi presenti tanto che c'è in Parlamento una proposta di legge bipartisan, che, in applicazione di una direttiva europea, prevederebbe la presenza femminile ad iniziare dal 20%.
Speriamo che questa legge vada in porto e non succeda ciò che si è verificato
nel 2005 quando fu affossata la legge sulle quote rosa che, a mo' di ponte, avrebbe potuto aiutare le donne ad essere presenti in Parlamento nella percentuale che progressivamente doveva andare dal 30 al 50%, com'è successo, ad esempio, in Norvegia.
Tutti i partiti allora, di destra e di sinistra, si adoperarono per boicottare un disegno di legge che, oltre ad essere una vittoria di civiltà, avrebbe potuto migliorare la qualità della nostra democrazia, evitando la deriva indecorosa dei nostri ultimi anni. Di quote rosa da allora non si parlò più. Né il governo Prodi né il nuovo governo Berlusconi ripresero l'argomento e ognuno, a modo suo, fece le sue quote rosa che nulla purtroppo hanno a che fare con il merito e con la dignità delle donne.
Persi questi anni, sopraggiunta una crisi economica che per l'Italia risulta più pesante e difficile da superare, con una crescita che ancora resta ferma all'1%, mentre in Germania si è superato il 3%, tutto è diventato più difficile e l'entrata delle donne nei luoghi che contano, ammesso che davvero se ne voglia oggi agevolare la partecipazione, non potrà da sola operare il cambiamento.
A questo punto è necessario, a mio avviso, se si vuole operare la svolta, unire le forze di uomini e donne per riformare la politica e perseguire veramente quel cambiamento invocato da tutti a parole.
In questa ottica bisogna: 1° diminuire il numero dei parlamentari, 2° mettere il tetto di non più di due legislature per sbarrare la strada ai professionisti della politica, 3° abbassare i costi della politica che in 10 anni scandalosamente sono aumentati del 40%.
Bisogna tornare allo spirito della nostra storia unitaria quando la politica era passione e servizio e non privilegi e vantaggi personali. Solo così saranno messi nell'agenda politica i veri problemi dei cittadini, portando al centro il lavoro, il welfare, l'ambiente e quanto serve a migliorare la qualità e le condizioni di vita di tutti, soprattutto dei giovani che, senza lavoro, stanno perfino perdendo la speranza.
Forse questa mia visione può apparire utopistica, ma penso che sia la strada obbligata per “rimettere al mondo” l'Italia.
Caterina Busetta
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mercoledì 9 marzo 2011
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