E questo è il mio terzo racconto di...vino:
"LE VIN DU DIABLE"
Caro Maestro,
ho vissuto un episodio davvero fantastico. Fremo dalla voglia di raccontarvelo. "Ho bevuto le vin du diable!"*.
Cosi scrive Guy de Maupassant a Flaubert, in una lettera immaginaria**, dalla Sicilia dove si trova per il suo “grand tour”, nella primavera del 1885.
E continua: "E’ il famoso vino Malvasia, che si produce sull’isola di Salina. Ne volli bere un’intera bottiglia. E’ proprio il vino dei vulcani, denso, dolce, dorato, talmente pregno di zolfo che fino a sera ve ne rimane il gusto. Si direbbe il vino del diavolo".
Maupassant porta con sé una buona scorta del Malvasia lungo il suo tour. E’ generalmente incantato dalle testimonianze storiche, che scopre in Sicilia. Soprattutto dai "templi greci, quei monumenti belli e possenti che il popolo divino elevava ai suoi dèi umani".
Ma resta letteralmente folgorato di fronte alla prorompente bellezza della Venere di Siracusa, da tanto tempo vagheggiata.
La incontra dopo un lungo peregrinare per i siti siciliani più conosciuti. Giunto finalmente al museo di Siracusa, prega il suo gentile accompagnatore di non seguirlo nella sala dove la statua è custodita. Adesso è solo davanti a lei, a studiarne ogni centimetro del marmo.
Caro Maestro, "tante persone traversano continenti per raggiungere luoghi di culto e di miracoli; io ho portato le mie devozioni alla Venere di Siracusa. E’ la Venere Callipigia (riproduzione in alto), donata ai Siracusani da Eliogabalo", lo stravagante ventenne imperatore romano, trucidato dai suoi stessi pretoriani, che fece appena in tempo a introdurre a Roma il culto orientale del Sole e della Natura. Solo per questo motivo dovrebbe essere considerato il più grande imperatore dell’antichità classica.
L’immagine della sua Venere non l’abbandona mai per tutto il resto del viaggio in Sicilia. E’ un trascinarsi stanco da un luogo a un altro, senza trovare mai niente che l’attragga come quella donna di marmo. Per lui "Venere non è affatto la donna dei poeti, la donna divina o maestosa, è la donna tale come è, come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere".
E finalmente a Girgenti*** l’episodio fantastico.
Mi trovavo nella famosa Valle dei Templi. Avevo finito la visita di "quelle dimore eterne degli dèi, morti come i loro fratelli umani", e me ne stavo all’ombra di un secolare ulivo, ai piedi del tempio di Giunone Lacina, a godermi una leggera brezza di maestrale, sollievo effimero alla calura siciliana, che a volte, anche in primavera, diventa insopportabile. E, allora, cosa di meglio di un buon bicchiere di vino freddo a lenire la momentanea arsura? Tiro fuori dal mio zaino una bottiglia del Malvasia, di cui vi parlavo prima e di cui avevo pensato bene di fare una buona scorta a Salina. Bevo il vino, rinfrescato dal ghiaccio, che alcuni scugnizzi girgentani, dagli occhi vispi e furbi, vendono agli sparuti turisti, in forma di grattatelle, che raschiano da un pesante cubo di ghiaccio, contenuto in una cassetta di legno rivestita di zinco per renderla impermeabile».
Lo bevo lentamente per assaporarlo fino all’ultima goccia. Che gusto, che sollievo! Come scende facile il Malvasia freddo, caro Maestro! Credo (anzi, ne sono certo) di averne bevuta una bottiglia intera. Di colpo una visione paradisiaca: escono dalle colonne del tempio di Giunone, l’ultimo da me visitato, cinque splendide fanciulle girgentane, addobbate come ninfe con svolazzanti veli bianchi, che suonano flauti e tamburelli. Avevo appena letto nel mio Baedeker che il tempio custodì, si dice, il famoso quadro di Giunone, dipinto dal pittore greco Zeusi, il quale aveva preso per modelle le cinque più belle fanciulle di Akràgas. Ma, allora, sono loro (mi sono detto): le ninfe di Giunone!.
Non ho fatto neppure in tempo a riprendermi dallo stupore, che mi vedo prendere per mano da due di loro e condurre lungo un dolce pendio, attraverso la valle in fiore, popolata da quelle splendide sculture viventi, che sono i tronchi dei secolari ulivi. Le altre ninfe ci precedono con canti festosi, al suono dei flauti e dei tamburelli. Ci fermiamo appena giunti alla base della Rupe Atenea, che chiude a nord est la città di Girgenti. Il tratto percorso non è breve, ma non mi sento per nulla stanco. Il mio corpo ha perso il proprio peso, assumendo una levità inusuale per un viandante, che macina chilometri a piedi. Alla fine della salita, volgiamo a destra e ci troviamo di fronte a un dirupo, che si affaccia in una sottostante vallata.
Dall’alto non si vedono antiche vestigia. Si scorge, però, osservando attentamente tra una fitta vegetazione di arbusti, qualcosa che sembra somigliare a una antica porta muraria. Le ninfe mi invitano a scendere. Esito. Non vedo nessun sentiero. Mi precedono, indicandomi gli arbusti più radicati nella roccia, che fanno quasi da scala naturale. La discesa è molto difficoltosa, ma alla fine arriviamo a un pianoro, dove posso rifiatare e osservare con attenzione la porta, che ora mi sta di fronte. Più che di una porta, si tratta di un’enorme riquadratura in conci di tufo, che incornicia l’ingresso di una grotta naturale incavata nella costone calcarenitico. Ai lati della porta due vasche sempre in conci di tufo, con in fondo qualche centimetro d’acqua».
Mi rendo conto di essere di fronte a uno dei più misteriosi e, nel contempo, affascinanti templi dell’antichità: il Santuario rupestre di Demetra e Persefone. Ve ne erano pochissimi sparsi per la Grecia e per la Magna Grecia. E uno è proprio a Girgenti, l’antica Akràgas. Il mito vuole che vi si celebrassero i Misteri Eleusini: i riti propiziatori dedicati a Demetra, dea della terra, e alla figlia Persefone, rapita da Plutone, dio degli inferi. Questi templi non furono visti con favore pure nell’antichità, soprattutto dopo la conquista dei Romani, che si affrettarono a chiuderli al culto, in quanto ritenevano osceni i Misteri Eleusini
Beata ignoranza! Ma cosa può esserci al mondo di più profondamente umano del culto della Natura, con l’adorazione del Sole, della Terra e di tutte le sue creature? Il tempio rupestre di Demetra e Persefone era proprio il luogo più adatto a rinnovarne il rito. Già la bocca stessa della grotta, incorniciata dalla porta in conci di tufo, sembra richiamare l’organo femminile. Ed è giusto che sia cosi. Infatti la natura è essenzialmente femmina!.
Lo so a cosa state pensando: che sono ossessionato sempre dal sesso! Mi sembra ancora di sentire il Vostro affettuoso rimprovero, quando, appena adolescente, cominciai a frequentare quelle case dette di perdizione: “Dove vai, pistolet, ma tu hai sempre la testa a quella cosa lì?”****.
“Quella cosa lì”, caro Maestro, è il vero simbolo della Natura e il tempio rupestre davanti a me ne è l’autentica rappresentazione. Mi siedo ad ammirarlo che già si è fatto sera. Il rosso disco del sole è sparito nel mare africano e l’argenteo viso della luna comincia a fare capolino, dietro il sovrastante costone della Rupe Atenea.
All’improvviso, comincio a sentire come un gorgoglìo d’acqua, ma non vedo ruscelli intorno a me. Osservo, invece, che, dal fondo delle vasche di pietra, l’acqua comincia a risalire lentamente ribollendo ed emanando un acre odore di zolfo, fino a raggiungere il livello massimo delle vasche. Che strano, penso, somiglia a uno di quei fenomeni vulcanici, che ho avuto modo di vedere nel vicino paese di Aragona, nella contrada che chiamano “Le Maccalube”. Contemporaneamente un dolce suono, come di flauti e cetre, proviene dalla grotta, che improvvisamente si illumina dall’interno. Dal fondo della grotta incede lentamente, con il sorriso più accattivante di questo mondo, una giovane fanciulla vestita di bianco, con il capo cinto da una corona di margherite, le stesse che avevo visto salendo per la valle, e con una melagrana in mano.
Ma è lei, esclamo, è Persefone! I simboli, che porta con sé, non dànno adito a dubbi: la corona di margheritine rappresenta la Primavera, la melagrana la fertilità della terra. Giunta sul limitare della grotta, la giovane attraversa la porta e guarda verso di me, ma sembra non vedermi, poi si gira a destra e a manca, a cercare qualcuno, che non tarda ad arrivare. Infatti, subito dopo un’altra luce si accende più in alto, proveniente da un’altra grotta, che prima non avevo notato, coperta com’è quasi completamente da arbusti. Anche da lì, preceduta da una soave melodia, compare una bellissima donna, coperta di veli gialli, che porta in mano spighe di grano. E’ Demetra, la dea della Terra, madre di Persefone. Anche lei si guarda intorno e appena scorge la figlia corre ad abbracciarla».
Ma ci pensate, Maestro, che fortuna? Sono l’unico mortale, che ha il privilegio di avere assistito all’incontro tra Demetra e Persefone, che, secondo l’imperscrutabile volere di Zeus, deve trascorrere sei mesi all’anno agli inferi con il dio Plutone, suo marito, e il restante periodo sulla terra, con la madre. Mai, credetemi, incontro è stato più commovente, anche se si ripete ormai da parecchi millenni. La Dea della Terra abbraccia l’adorata figlia e, con lei, sparisce tra la vegetazione, per restituirla, secondo il mito, dopo sei mesi, all’inizio dell’inverno.
Ma non è finita qui, caro Maestro, il più bello Ve lo devo ancora raccontare. D’un tratto, la stessa grotta, da dove è uscita Demetra, s’illumina di una luce ancora più intensa e vedo procedere, dal fondo di essa, un’altra figura di donna più incantevole delle precedenti, che, però, ancora non distinguo bene. Ecco ora la scorgo meglio: è lei, non posso crederci, la Venere Callipigia, la “mia” Venere! Stavolta in carne e ossa, che avanza con incedere misurato ed elegante; il viso radioso; i capelli ricci biondi, annodati dietro la nuca. "E’ prosperosa, col seno florido nudo, l’anca robusta e la gamba vigorosa; è una Venere carnale, che, quando la si vede in piedi, è naturale immaginarla coricata. Il braccio destro cela i seni; con la mano sinistra solleva un panno, col quale copre, con grazia, i fascini più intimi. Questo gesto semplice e naturale, pregno di pudore e di sensualità, che nasconde e mostra, che vela e svela, che attrae e allontana, sembra definire tutti i caratteri della donna sulla terra".
A differenza delle altre due divinità, lei mi scorge e mi invita ad avvicinarmi, con un sorriso che le illumina il volto. "Ha quel fascino del sorriso nato da una piega delle labbra e da un luccichio di smalto, nella grazia delle forme e dei movimenti fatti a caso". A questo punto, avanzo incantato verso di lei. Sorride, sorrido anch’io. Lentamente avvicina la sua mano destra e sfiora appena appena il mio volto. Che emozione, caro Maestro, "quel gesto soave esprime tutta la reale poesia della carezza!".
Inebriato e tremante mi risveglio, sotto l’albero dell’ulivo, ai piedi del tempio di Giunone. Accanto a me la bottiglia vuota del Malvasia e in bocca ancora il sapore sulfureo del vino. Incredibile, Maestro! Ho vissuto l’esperienza onirica più esaltante della mia vita. E allora dico grazie alla Sicilia, grazie a Girgenti ma, soprattutto, merci au vin du diable».
* Le frasi virgolettatte sono tratte dal resoconto di viaggio di Guy de Maupassant: “La vie errante”. Capitolo: “La Sicilie”- 1885.
** Lettera immaginaria, che Maupassant non ha mai scritto, anche perché
Flaubert era morto cinque anni prima che M. realizzasse il suo viaggio in
Sicilia.
*** Girgenti è l’attuale Agrigento.
**** L’espressione “Dove vai pistolet…” è contenuta nel diario che Flaubert
tenne durante il viaggio che effettuò in Svizzera con Maupassant nel 1876
Gaetano Gaziano
tanogaziano@yahoo.it
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