giovedì 8 settembre 2011

Rigassificatore di Porto Empedocle: contrario il presidente della Camera di Commercio di Agrigento

Vittorio Messina, il giovane e coraggioso presidente della Camera di Commercio di Agrigento, si dichiara contrario al rigassificatore di 8 miliardi di mc.a Porto Empedocle sotto la Valle dei Templi di Agrigento e ritiene giusto ricorrere alla Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu) di Strasburgo per blocccare il progetto.
Riportiamo integralmente l'articolo di Vittorio Messina pubblicato sul giornale on line www.perlacitta.it.

"In vista della prossima seduta del Consiglio della Camera di commercio di Agrigento, dedicata al piano pluriennale 2011/2016, il presidente Vittorio Messina ,con una nota stampa, anticipa alcune scelte di fondo che caratterizzerano lo strumento di pianificazione dell’Ente, definendo le coordinate lungo le quali camminare nei prossimi anni per sostenere la competitività delle aziende agrigentine e la crescita complessiva del territorio.

La congiuntura economica che stiamo vivendo, riassunta nell’ultimo Report presentato prima dell’estate 2011, impone alla Camera di Commercio di Agrigento una programmazione degli obiettivi che intende perseguire nel prossimo quinquennio molto da un lato molto attenta ai dati reali che costituiscono indubbie indicazioni di merito e al metodo con cui approcciare il problema dello sviluppo economico che ha assunto una configurazione nuova.

L’elemento più visibile di questa novità è che la descrizione scientifica del fenomeno dello sviluppo non è più condotta solo lungo le linee dei settori produttivi, ma integra significativamente anche la dinamica territoriale, aprendo immediatamente il problema di due importanti cinghie di trasmissione: le tecnologie e le istituzioni locali.

Inoltre i momento di difficoltà non può non rafforzare quell’idea di collaborazione tra enti e associazioni operanti a vario titolo nel territorio che da anni l’amministrazione della Camera di commercio porta avanti.

Non a caso alcune comuni attività intraprese , hanno consentito di ottenere risultati significativi ed economie di gestione importanti, mostrando come la strada lungo la quale proseguire sia quella della condivisione progettuale.

Trasferendo questo tipo di approccio al territorio si osserva come le risorse di fiducia e di conoscenza rappresentano le vere fonti dei vantaggi competitivi territoriali in contesti di crescente concorrenzialità , quali quelli attuali.

Per altro, l’attenzione alla dotazione storica, unica e inimitabile, di risorse e specificità locali come fonte dei vantaggi competitivi pone il problema del bilanciamento tra localismo e globalismo , tra vantaggi competitivi locali e concorrenza globale.

La scommessa da giocare, per creare condizioni reali di sviluppo, ha una posta molto alta, è ambiziosa e va centrata su un protagonismo degli attori sociali che affondi le sue radici in un rinnovato sistema istituzionale.

La complessità di un percorso come quello sopra delineato richiede la previsione di precisi passaggi dotati di operatività per salvaguardare le risorse potenziali e per garantire la loro valorizzazione e per promuoverne la diversificazione.

Passaggi che richiedono il rafforzamento della capacità di interloquire tra i diversi soggetti protagonisti del territorio, nonché la capacità di orientare e governare le scelte in un’ottica di superamento di concetti localistici che attualmente non sono più in grado di garantire un ambiente sufficientemente competitivo per le imprese.

Consapevoli delle potenzialità intellettuali e culturali del nostro territorio, occorre puntare con determinazione sulla qualità dei saperi e su un progetto culturale tecnologicamente avanzato. Iniziative come i piani strategici, i patti territoriali, gli strumenti più sofisticati che puntano sullo sviluppo dal basso, i parchi naturali, i parchi archeologici, la diversificazione produttiva favorita dall’ente pubblico in ogni settore, hanno messo le basi per un processo che va ulteriormente potenziato e che deve avere come obiettivo fondamentale uno sviluppo sostenibile.

In questo quadro vanno collocati gli interventi per il completamento della infrastrutturazione del sistema dei trasporti dell’area centro meridionale della Sicilia per l’infrastrutturazione sociale della provincia, per lo sviluppo qualitativo della produzione agricola, per il ridisegno del sistema della promozione turistica e per la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale del territorio.

In questo quadro stride la presenza di un impianto come il rigassificatore di Porto Empedocle, la cui realizzazione abbiamo contrastato non già per posizioni ideologiche ma perché a nostro avviso, a prescindere da tutte le riserve che si possono esprimere in termini di sicurezza, decisamente fuori luogo per la scelta del sito.

La notizia che molti cittadini di Agrigento, con in testa il sindaco Marco Zambuto, stiano preparando un ricorso alla Corte di giustizia europea, che intanto il Fai, che qualche tempo addietro si era schierato a favore dell’impianto oggi si prepara ad una clamorosa retromarcia dichiarando che sarebbe meglio farlo offshore, che anche l’Unesco, per mezzo di Gianni Puglisi che è il suo rappresentante in Italia, fa sapere che sarebbe meglio farlo altrove, confermano la bontà della nostra azione a salvaguardia di un territorio che appartiene al patrimonio dell’umanità ma che è la vera grande ricchezza da preservare, per la città e del suo hinterland.

Le traiettorie dello sviluppo che intendiamo disegnare per questa terra sono incompatibili con un’opera invasiva che snaturerebbe i luoghi, comprometterebbe l’appeal di un sito magico, non porterebbe alcun vantaggio alla nostra comunità.

Proprio perché la provincia di Agrigento ha subito in questi anni un consistente processo di riconversione economica senza avere ancora saputo ridefinire il profilo del proprio futuro, abbiamo ritenuto opportuno evidenziare tutte le nostre perplessità rispetto ad un ipotesi di sviluppo che contempla l’ubicazione di industrie pesanti nel nostro territorio. Scelte che potrebbero compromettere altre strategie finalizzate a mettere a frutto quelle risorse paesaggistiche, culturali e ambientali che molto meglio si conciliano con le spinte vocazionali.

Purtroppo, queste esitazioni determinano un diffuso scetticismo sulla capacità di potere svolgere un ruolo di primo piano nel processo di integrazione europea che sta di fronte al nostro paese.

Ed è per questo che riteniamo che il nostro compito e quello delle Istituzioni locali deve essere indirizzato a ricreare la fiducia, offrendo obiettivi perseguibili e strumenti per realizzarli”.

Dott. Vittorio Messina

Presidente CCIA di Agrigento.
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domenica 28 agosto 2011

"Le rouge et le noir"

«Benvenuto, caro Leonardo! Ti stavamo aspettando».
Stendhal accoglie Sciascia, con un largo sorriso.
«Anch’io sono felice di incontrarla, maestro!».
«Alt! In questo luogo non ci sono né maestri né allievi. Niente maîtres à penser!».
«D’accordo Henri, niente formalismi. Consentimi, comunque, di dirti che sono veramente felice di incontrarti. Era da tempo che aspettavo questo momento. Tu conosci l’ammirazione che ho per te».
«Lo so! Ma, del resto, è abbondantemente ricambiata. Quassù, potremo scambiarci le nostre riflessioni direttamente, lontani dal quel fastidioso rumore di fondo di quella che chiamano “vita terrena”». «Finalmente! Sapessi a cosa si è ridotta la comunicazione laggiù: autentica spazzatura! Nelle librerie, poi, i best sellers sono rappresentati dai libri dei comici di successo. Pochissime sono, ormai, le opere di narrativa che valga la pena di leggere».
«Davvero?».
«Sì, mio caro Henri! E questo è per me un grande dolore. Ma veniamo a noi. Sai, è da tempo che volevo chiederti due o tre cose, anche per liberare il campo da alcune perplessità che avanzano gli studiosi delle tue opere».
«So bene a cosa alludi: ai sospetti, neppure tanto larvati, di egoismo, di spregiudicatezza o, addirittura, di cinismo…».
«Ecco, in non volevo dirlo. Ma, visto che sei tu a parlarne…Per esempio, qualcuno ha visto, nelle tue dichiarazioni di amore sperticate per l’Italia, un atteggiamento di comodo, quasi furbesco, per tenerti buona l’intellighentia milanese, visto che tu arrivavi a Milano come sottotenentino dell’esercito napoleonico. Vero è che scendevate in Italia come esercito di liberazione. Ma qualcuno cominciò a parlare velatamente di nuove truppe di occupazione francesi».
«Mi è facile contestare questi sospetti, mio caro Nanà! (Consentimi di chiamarti come i tuoi amici di Racalmuto). A quel tempo avevo solo diciassette anni. Seguii Bonaparte in Italia, perché mi sembrò l’unica possibilità di viaggiare e di conoscere il vostro meraviglioso paese. E tu sai, del resto, che ben presto mi stancai della vita militare e lasciai l’esercito, per dedicarmi a miei studi sulla storia e sull’arte italiane. E, poi, qualsiasi sospetto di opportunismo dovrebbe essere fugato dal fatto che ho chiesto, a testimonianza dell’amore per Milano, che sulla mia tomba venisse scritto l’epitaffio “Qui giace Arrigho Beyle, milanese”. Quando sei morto, mio caro Nanà, le furbizie non servono più!».
«E’ vero! Ma, d’altre parte, io non avevo alcun dubbio. Dicono, pure, che tu hai sfruttato il fascino, che esercitavi sulle donne, per fare carriera. Che come Julien Sorel, il protagonista di "Le rouge et le noir", avresti tentato di introdurti nella società bene, di acquisirne benemerenze e incarichi, attraverso le tue conquiste galanti, che,per la verità, collezionavi con grande facilità, soprattutto tra le dame dell’aristocrazia».
«Hai ragione! In Julien Sorel c’è molto di autobiografico. Fino a un certo punto, però. E’ vero: come lui avevo un debole per le donne. E chi lo nega? Ma non ho mai utilizzato le mie conquiste galanti come grimaldello per “sfondare” nella società che conta, come sostiene qualcuno. D’altra parte, in Italia non ho mai avuto incarichi ufficiali, né pubblici né privati. Ho sempre lavorato per lo Stato francese, fino al mio ultimo incarico, che è stato quello di console, a Civitavecchia. E, poi, questa fama di seduttore è stata un po’ montata ad arte, a beneficio di certa letteratura pruriginosa. Se consideri, peraltro, che l’unica donna italiana a cui tenevo veramente, la contessina Giulia Ranieri, di cui ho chiesto anche la mano, mi ha opposto un cortese ma netto rifiuto, mi ha dato “coffa” come dite voi siciliani, la leggenda metropolitana di uno Stendhal tombeur de femmes ne esce notevolmente ridimensionata».
«Assolutamente convincente, mio caro Henri! E, ora, levami un’ultima curiosità. Perché hai dato il titolo di Le rouge et le noir al tuo romanzo più famoso? Tu sai bene che sono state date molte interpretazioni al riguardo. Qualcuno ha detto che il titolo ha un riferimento preciso al nero dell’abito talare di Julien Sorel, ex seminarista, e al rosso del sangue, visto che Julien finì ghigliottinato. C’è chi ha sostenuto che hai inteso alludere al contrasto tra i clericali (nero) e i liberali (rosso) del tempo. Chi porta avanti altre teorie ancora. Per favore, vuoi dare la tua versione autentica, per mettere la parola fine a tutte queste diatribe?».
«Io, ovviamente, la mia motivazione la conosco. Ma consentimi di essere un po’ cinico, questa volta sì. Non la rivelerò mai! Ma tu te l’immagini? Se dovessi svelare l’origine del titolo, farei la gioia di un critico letterario per scontentarne almeno altri dieci: meglio lasciarli nelle loro convinzioni. Ma, a proposito di rouge et noir, perché non parlare di un argomento più divertente? Più frivolo, direi. Parliamo di vini! Credo che possiamo dare, vista la nostra condizione diciamo così “spirituale”, un’autorevole opinione sull’eterna querelle se siano più buoni i vini francesi o quelli italiani. Sei d’accordo Nanà?».
«Pienamente d’accordo. Io, al riguardo, ho un’idea ben precisa. Chapeau bas, tanto di cappello, ai vini bianchi francesi, soprattutto allo champagne. Ma, per quanto riguarda i rossi, non credo che esistano vini più buoni di quelli siciliani. Penso sempre, con grande nostalgia, al vino rosso che si produce nella mia amata campagna in contrada “La Noce”, a Racalmuto. Che profumo delicato! Che sapore intenso! Che emozioni, al momento della vendemmia con tutti i ragazzi a fare festa, mentre pigiavamo l’uva a piedi scalzi! E, poi, un anno, successe un fatto bellissimo, che ricordo sempre con piacere».
«Quale?».
«Mentre pigiavamo l’uva, preso dai fumi del mosto, crollai in mezzo al tino. I miei compagni prontamente mi risollevarono, ma, completamente ebbro, ridevo e straparlavo, mentre loro mi sorreggevano per le braccia».
«E cosa dicevi?».
«Fantasticavo, a quanto mi raccontarono dopo, di trovarmi in mezzo a un Baccanale in pieno svolgimento, secondo il rito pagano, che ci aveva spiegato, qualche tempo prima, il nostro vecchio insegnante di latino».
«Interessante! Soprattutto, sotto l’aspetto letterario. Racconta!».
«Io mi trovavo proprio in mezzo al corteo, preceduto dalle Menadi, le vergini che reggevano un enorme fallo di legno, simbolo della fertilità della terra e propiziatore di abbondanti raccolti, che procedeva, ondeggiando, tra la folla acclamante. Seguivano i Satiri, che, con i loro flauti doppi e tamburelli, intonavano suoni, a ritmo sempre più incalzante e frenetico».
«E, tu, che ruolo avevi nel rito?».
«Rappresentavo Dioniso. Cinto di pampini di vite, avanzavo tra la folla, sopra un cocchio trainato da cavalli, distribuendo grappoli di uva nera, mentre le Menadi mescevano vino a profusione alla folla sempre più vociante ed eccitata».
«E come è finita?».
«Come tutti i riti dionisiaci: con il fallo-falò! Ovverosia, con l’incendio dell’enorme simbolo fallico, mentre Dioniso, le Menadi e i Satiri, tutt’intorno, davamo vita a un vorticoso e delirante carosello».
«E tu?».
«Io, a detta dei miei compagni, alla fine del racconto che avevo fatto quasi in trance, completamente madido di sudore e con i vestiti zuppi di mosto, caddi in un sonno profondo e mi risvegliai nella mia casa di campagna, in contrada “La Noce”, dove mi avevano trasportato a braccia, solo due giorni dopo».
«Fantastico argomento per un racconto! Come mai non hai scritto niente, al riguardo?».
«Mi ripromettevo sempre di scriverci qualcosa, ma, poi, per un motivo o per un altro, ho sempre rimandato. Peccato! Chissa che, un giorno, qualche scrittore non prenda spunto da questo episodio, per realizzarci un racconto. Mah! Io me lo auguro. Ecco, in conclusione, perché ritengo il mio “Rosso della Noce” il vino più buono del mondo. Io non bevo molto, credimi, ma basta un goccetto del mio vino a mettermi allegria. A rendermi euforico».
«Tu non sei un estimatore del tuo vino. Di più: ne sei innamorato!».
«E’ vero, non posso negarlo: amo il vino della mia contrada! Che ne dici, mio caro Henri, ci facciamo un goccetto di rosso?».
«Ouì très volontiers, mon cher Nanà!».
Gaetano Gaziano
tanogaziano@yahoo.it
Questo è il mio quarto racconto tratto dalla raccolta "Il Bacchino ubriaco", edita dalla "Excogita" di Milano.
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venerdì 12 agosto 2011

Rigassificatore di Porto Empedocle: nuova interrogazione di Sonia Alfano alla Commissione Europea

Sonia Alfano ha presentato una nuova interrogazione alla Commissione Europea sul rigassificatore di Porto Empedocle. Questo il testo...
“In risposta all’interrogazione E-4831/2010 – scrive l’on. Alfano nella premessa del suo atto ispettivo – la Commissione Europea il 12/10/2010 dichiarava che, con riferimento alla denuncia per presunti aiuti di Stato illegittimi per la costruzione di impianti di rigassificazione in Italia, avrebbe aperto un’indagine e valutato la situazione con attenzione. In data 17 /06/ 2011 la DG Concorrenza inviava una nota ai denuncianti con riferimento al caso CP 81/2009 nella quale comunicava che, avendo ricevuto le necessarie informazioni dall’Italia, non riteneva di dare seguito alla denuncia. Nella nota inviata dalla Commissione si registrano a mio modo di vedere numerosi passaggi per i quali risulta necessario un approfondimento”.

“La Commissione stessa – continua Sonia Alfano – afferma che siamo in presenza di una “garanzia di reddito prevista dalla legislazione italiana” offerta ai terminali di rigassificazione di recente o prossima costruzione. Il dato di fatto è che dunque la Commissione riconosce che siamo in presenza di un aiuto di Stato. D’altra parte tale aiuto, vista la natura dell’impianto e le modalità, non risponde ad alcuna delle eccezioni esistenti nei trattati e nella normativa europea, tale che esso risulti compatibile con il mercato interno”.

“La Commissione precisa “innanzitutto” – aggiunge l’europarlamentare di IdV – che “il provvedimento descritto non è mai stato applicato”. Si ritiene grave che la Commissione tenda a utilizzare prioritariamente questa argomentazione poiché essa sarebbe accettabile nel caso in cui il provvedimento non fosse approvato. Non è ammissibile invece su un atto che dispiega pienamente i suoi effetti e dunque su cui la Commissione ha l’obbligo di intervenire, senza attendere che venga applicato. Appare inammissibile che la Commissione faccia riferimento alle “buone probabilità” che tale aiuto venga considerato legittimo. La Commissione ha il compito di valutare e accertare sulla base della normativa esistente se siamo in presenza di un aiuto di Stato illegittimo o no”.

“Si domanda pertanto alla Commissione Europea – conclude l’on. Alfano – una risposta puntuale per ciascuna delle seguenti domande:

1) in che maniera il fatto che la “garanzia di reddito è volta a coprire una quota degli investimenti in conto capitale per la costruzione dell’impianto” consente di escludere l’illiceità di tali aiuti?

2) Qual è la “capacità di rigassificazione su base nazionale” cui si fa riferimento?

3) Quali sarebbero le “specifiche condizioni” cui sarebbe sottoposta tale “garanzia di reddito”?

4) La Commissione ha l’obbligo di intervenire in caso di provvedimenti efficaci pur se non applicati?

5) Quali sono le motivazioni che “con buona probabilità” inducono la Commissione ad affermare che siffatto aiuto è compatibile con il mercato comune?

6) Può la Commissione rispondere quanto prima alla richiesta inviata dai denuncianti il 27/07/11, in modo da dare accesso alla documentazione per consentire loro di fare eventuali e aggiuntive riflessioni”.

Sonia Alfano, nel pubblicare sul proprio sito "www.soniaalfano.it l'interrogazione, ha così commentato le finalità della sua ultima iniziativa politica. "Ho presentato una nuova interrogazione alla Commissione Europea. NO ai “prenditori” di soldi pubblici. NO alla distruzione paesaggistica (e non solo) della Valle dei Templi".
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sabato 23 luglio 2011

"LE VIN DU DIABLE"

E questo è il mio terzo racconto di...vino:
"LE VIN DU DIABLE"
Caro Maestro,
ho vissuto un episodio davvero fantastico. Fremo dalla voglia di raccontarvelo. "Ho bevuto le vin du diable!"*.
Cosi scrive Guy de Maupassant a Flaubert, in una lettera immaginaria**, dalla Sicilia dove si trova per il suo “grand tour”, nella primavera del 1885.
E continua: "E’ il famoso vino Malvasia, che si produce sull’isola di Salina. Ne volli bere un’intera bottiglia. E’ proprio il vino dei vulcani, denso, dolce, dorato, talmente pregno di zolfo che fino a sera ve ne rimane il gusto. Si direbbe il vino del diavolo".
Maupassant porta con sé una buona scorta del Malvasia lungo il suo tour. E’ generalmente incantato dalle testimonianze storiche, che scopre in Sicilia. Soprattutto dai "templi greci, quei monumenti belli e possenti che il popolo divino elevava ai suoi dèi umani".
Ma resta letteralmente folgorato di fronte alla prorompente bellezza della Venere di Siracusa, da tanto tempo vagheggiata.
La incontra dopo un lungo peregrinare per i siti siciliani più conosciuti. Giunto finalmente al museo di Siracusa, prega il suo gentile accompagnatore di non seguirlo nella sala dove la statua è custodita. Adesso è solo davanti a lei, a studiarne ogni centimetro del marmo.
Caro Maestro, "tante persone traversano continenti per raggiungere luoghi di culto e di miracoli; io ho portato le mie devozioni alla Venere di Siracusa. E’ la Venere Callipigia (riproduzione in alto), donata ai Siracusani da Eliogabalo", lo stravagante ventenne imperatore romano, trucidato dai suoi stessi pretoriani, che fece appena in tempo a introdurre a Roma il culto orientale del Sole e della Natura. Solo per questo motivo dovrebbe essere considerato il più grande imperatore dell’antichità classica.
L’immagine della sua Venere non l’abbandona mai per tutto il resto del viaggio in Sicilia. E’ un trascinarsi stanco da un luogo a un altro, senza trovare mai niente che l’attragga come quella donna di marmo. Per lui "Venere non è affatto la donna dei poeti, la donna divina o maestosa, è la donna tale come è, come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere".

E finalmente a Girgenti*** l’episodio fantastico.
Mi trovavo nella famosa Valle dei Templi. Avevo finito la visita di "quelle dimore eterne degli dèi, morti come i loro fratelli umani", e me ne stavo all’ombra di un secolare ulivo, ai piedi del tempio di Giunone Lacina, a godermi una leggera brezza di maestrale, sollievo effimero alla calura siciliana, che a volte, anche in primavera, diventa insopportabile. E, allora, cosa di meglio di un buon bicchiere di vino freddo a lenire la momentanea arsura? Tiro fuori dal mio zaino una bottiglia del Malvasia, di cui vi parlavo prima e di cui avevo pensato bene di fare una buona scorta a Salina. Bevo il vino, rinfrescato dal ghiaccio, che alcuni scugnizzi girgentani, dagli occhi vispi e furbi, vendono agli sparuti turisti, in forma di grattatelle, che raschiano da un pesante cubo di ghiaccio, contenuto in una cassetta di legno rivestita di zinco per renderla impermeabile».

Lo bevo lentamente per assaporarlo fino all’ultima goccia. Che gusto, che sollievo! Come scende facile il Malvasia freddo, caro Maestro! Credo (anzi, ne sono certo) di averne bevuta una bottiglia intera. Di colpo una visione paradisiaca: escono dalle colonne del tempio di Giunone, l’ultimo da me visitato, cinque splendide fanciulle girgentane, addobbate come ninfe con svolazzanti veli bianchi, che suonano flauti e tamburelli. Avevo appena letto nel mio Baedeker che il tempio custodì, si dice, il famoso quadro di Giunone, dipinto dal pittore greco Zeusi, il quale aveva preso per modelle le cinque più belle fanciulle di Akràgas. Ma, allora, sono loro (mi sono detto): le ninfe di Giunone!.
Non ho fatto neppure in tempo a riprendermi dallo stupore, che mi vedo prendere per mano da due di loro e condurre lungo un dolce pendio, attraverso la valle in fiore, popolata da quelle splendide sculture viventi, che sono i tronchi dei secolari ulivi. Le altre ninfe ci precedono con canti festosi, al suono dei flauti e dei tamburelli. Ci fermiamo appena giunti alla base della Rupe Atenea, che chiude a nord est la città di Girgenti. Il tratto percorso non è breve, ma non mi sento per nulla stanco. Il mio corpo ha perso il proprio peso, assumendo una levità inusuale per un viandante, che macina chilometri a piedi. Alla fine della salita, volgiamo a destra e ci troviamo di fronte a un dirupo, che si affaccia in una sottostante vallata.
Dall’alto non si vedono antiche vestigia. Si scorge, però, osservando attentamente tra una fitta vegetazione di arbusti, qualcosa che sembra somigliare a una antica porta muraria. Le ninfe mi invitano a scendere. Esito. Non vedo nessun sentiero. Mi precedono, indicandomi gli arbusti più radicati nella roccia, che fanno quasi da scala naturale. La discesa è molto difficoltosa, ma alla fine arriviamo a un pianoro, dove posso rifiatare e osservare con attenzione la porta, che ora mi sta di fronte. Più che di una porta, si tratta di un’enorme riquadratura in conci di tufo, che incornicia l’ingresso di una grotta naturale incavata nella costone calcarenitico. Ai lati della porta due vasche sempre in conci di tufo, con in fondo qualche centimetro d’acqua».
Mi rendo conto di essere di fronte a uno dei più misteriosi e, nel contempo, affascinanti templi dell’antichità: il Santuario rupestre di Demetra e Persefone. Ve ne erano pochissimi sparsi per la Grecia e per la Magna Grecia. E uno è proprio a Girgenti, l’antica Akràgas. Il mito vuole che vi si celebrassero i Misteri Eleusini: i riti propiziatori dedicati a Demetra, dea della terra, e alla figlia Persefone, rapita da Plutone, dio degli inferi. Questi templi non furono visti con favore pure nell’antichità, soprattutto dopo la conquista dei Romani, che si affrettarono a chiuderli al culto, in quanto ritenevano osceni i Misteri Eleusini
Beata ignoranza! Ma cosa può esserci al mondo di più profondamente umano del culto della Natura, con l’adorazione del Sole, della Terra e di tutte le sue creature? Il tempio rupestre di Demetra e Persefone era proprio il luogo più adatto a rinnovarne il rito. Già la bocca stessa della grotta, incorniciata dalla porta in conci di tufo, sembra richiamare l’organo femminile. Ed è giusto che sia cosi. Infatti la natura è essenzialmente femmina!.
Lo so a cosa state pensando: che sono ossessionato sempre dal sesso! Mi sembra ancora di sentire il Vostro affettuoso rimprovero, quando, appena adolescente, cominciai a frequentare quelle case dette di perdizione: “Dove vai, pistolet, ma tu hai sempre la testa a quella cosa lì?”****.
“Quella cosa lì”, caro Maestro, è il vero simbolo della Natura e il tempio rupestre davanti a me ne è l’autentica rappresentazione. Mi siedo ad ammirarlo che già si è fatto sera. Il rosso disco del sole è sparito nel mare africano e l’argenteo viso della luna comincia a fare capolino, dietro il sovrastante costone della Rupe Atenea.
All’improvviso, comincio a sentire come un gorgoglìo d’acqua, ma non vedo ruscelli intorno a me. Osservo, invece, che, dal fondo delle vasche di pietra, l’acqua comincia a risalire lentamente ribollendo ed emanando un acre odore di zolfo, fino a raggiungere il livello massimo delle vasche. Che strano, penso, somiglia a uno di quei fenomeni vulcanici, che ho avuto modo di vedere nel vicino paese di Aragona, nella contrada che chiamano “Le Maccalube”. Contemporaneamente un dolce suono, come di flauti e cetre, proviene dalla grotta, che improvvisamente si illumina dall’interno. Dal fondo della grotta incede lentamente, con il sorriso più accattivante di questo mondo, una giovane fanciulla vestita di bianco, con il capo cinto da una corona di margherite, le stesse che avevo visto salendo per la valle, e con una melagrana in mano.
Ma è lei, esclamo, è Persefone! I simboli, che porta con sé, non dànno adito a dubbi: la corona di margheritine rappresenta la Primavera, la melagrana la fertilità della terra. Giunta sul limitare della grotta, la giovane attraversa la porta e guarda verso di me, ma sembra non vedermi, poi si gira a destra e a manca, a cercare qualcuno, che non tarda ad arrivare. Infatti, subito dopo un’altra luce si accende più in alto, proveniente da un’altra grotta, che prima non avevo notato, coperta com’è quasi completamente da arbusti. Anche da lì, preceduta da una soave melodia, compare una bellissima donna, coperta di veli gialli, che porta in mano spighe di grano. E’ Demetra, la dea della Terra, madre di Persefone. Anche lei si guarda intorno e appena scorge la figlia corre ad abbracciarla».
Ma ci pensate, Maestro, che fortuna? Sono l’unico mortale, che ha il privilegio di avere assistito all’incontro tra Demetra e Persefone, che, secondo l’imperscrutabile volere di Zeus, deve trascorrere sei mesi all’anno agli inferi con il dio Plutone, suo marito, e il restante periodo sulla terra, con la madre. Mai, credetemi, incontro è stato più commovente, anche se si ripete ormai da parecchi millenni. La Dea della Terra abbraccia l’adorata figlia e, con lei, sparisce tra la vegetazione, per restituirla, secondo il mito, dopo sei mesi, all’inizio dell’inverno.
Ma non è finita qui, caro Maestro, il più bello Ve lo devo ancora raccontare. D’un tratto, la stessa grotta, da dove è uscita Demetra, s’illumina di una luce ancora più intensa e vedo procedere, dal fondo di essa, un’altra figura di donna più incantevole delle precedenti, che, però, ancora non distinguo bene. Ecco ora la scorgo meglio: è lei, non posso crederci, la Venere Callipigia, la “mia” Venere! Stavolta in carne e ossa, che avanza con incedere misurato ed elegante; il viso radioso; i capelli ricci biondi, annodati dietro la nuca. "E’ prosperosa, col seno florido nudo, l’anca robusta e la gamba vigorosa; è una Venere carnale, che, quando la si vede in piedi, è naturale immaginarla coricata. Il braccio destro cela i seni; con la mano sinistra solleva un panno, col quale copre, con grazia, i fascini più intimi. Questo gesto semplice e naturale, pregno di pudore e di sensualità, che nasconde e mostra, che vela e svela, che attrae e allontana, sembra definire tutti i caratteri della donna sulla terra".
A differenza delle altre due divinità, lei mi scorge e mi invita ad avvicinarmi, con un sorriso che le illumina il volto. "Ha quel fascino del sorriso nato da una piega delle labbra e da un luccichio di smalto, nella grazia delle forme e dei movimenti fatti a caso". A questo punto, avanzo incantato verso di lei. Sorride, sorrido anch’io. Lentamente avvicina la sua mano destra e sfiora appena appena il mio volto. Che emozione, caro Maestro, "quel gesto soave esprime tutta la reale poesia della carezza!".
Inebriato e tremante mi risveglio, sotto l’albero dell’ulivo, ai piedi del tempio di Giunone. Accanto a me la bottiglia vuota del Malvasia e in bocca ancora il sapore sulfureo del vino. Incredibile, Maestro! Ho vissuto l’esperienza onirica più esaltante della mia vita. E allora dico grazie alla Sicilia, grazie a Girgenti ma, soprattutto, merci au vin du diable».

* Le frasi virgolettatte sono tratte dal resoconto di viaggio di Guy de Maupassant: “La vie errante”. Capitolo: “La Sicilie”- 1885.
** Lettera immaginaria, che Maupassant non ha mai scritto, anche perché
Flaubert era morto cinque anni prima che M. realizzasse il suo viaggio in
Sicilia.
*** Girgenti è l’attuale Agrigento.
**** L’espressione “Dove vai pistolet…” è contenuta nel diario che Flaubert
tenne durante il viaggio che effettuò in Svizzera con Maupassant nel 1876
Gaetano Gaziano
tanogaziano@yahoo.it
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mercoledì 20 luglio 2011

Rigassificatore di Porto Empedocle: oggi è un giorno triste ma non ci arrendiamo

Oggi è un giorno triste: apprendiamo che il Consiglio di Stato ha ieri deciso di accettare i ricorsi di Enel e del comune di Porto Empedocle, dando così il via libera alla costruzione di un rigassificatore da 8 miliardi di mc a Porto Empedocle sotto la Valle dei Templi di Agrigento, patrimonio Unesco.
Ma non ci arrendiamo!
Le associazioni stanno valutando i rimedi giuridici, e ce ne sono, di contrastare il progetto industriale gasiero che, se realizzato, snaturerà irreversibilmente la vocazione economica del nostro territorio che è e non può che essere quella del turismo culturale.
Si ringrazia intanto il Sindaco di Agrigento, Marco Zambuto, che, sposando la nostra causa, non ha esitato a schierarsi a nostro fianco con grande coraggio.
Sappiamo quali e quante pressioni politiche ha ricevuto e gli attacchi violenti di Confindustria.
Grazie, Marco.
Le associazioni, che si sono battute per contrastare i poteri forti, ti dicono che continueranno la lotta e sono certe che ti avranno sempre a loro fianco.
Gaetano Gaziano
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martedì 19 luglio 2011

Rigassificatore: entro otto giorni la sentenza del Consiglio di Stato

Oggi c'è stata l'udienza conclusiva della sesta sezione del Consiglio di Stato, presieduta dal Dr. Giuseppe Severini, sulla vicenda del rigassificatore di Porto Empededocle sotto la Valle dei Templi dichiarata patrimonio Unesco.
Gli avvocati difensori del Comune di Agrigento, della Camera di Commercio, di Legambiente, di Italia Nostra, di Codacons, di Arci e di tante altre associazioni, compresa la nostra, hanno esposto le ultime argomentazioni contro la realizzazione dell'impianto.
Desideriamo ringraziare, intanto, tutti gli avvocati che, oltre alla propria professionalità, hanno profuso un quid in più: la loro passione civile per contrastare un opera che, se realizzata, supponiamo sarà ritenuta motivo di ignominia dal mondo intero della cultura per noi Italiani tutti.
Il dispositivo della sentenza verrà dato entro 8 giorni. Per le motivazioni bisognerà attendere qualche mese.
Incrociamo le dita!
Gaetano Gaziano
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giovedì 7 luglio 2011

Il verdetto di Dom Pérignon

Questo il secondo dei miei racconti, tratto dalla raccolta "Il Bacchino ubriaco e altre storie" edita da Excogita di Milano
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"Il verdetto di Dom Pérignon"
Dom Pierre Pérignon era il monaco più famoso di Francia.
E per due motivi: aveva creato il celebre vino “Champagne” e godeva di fama di tombeur de femmes. Anche se monaco. Anzi, proprio perché monaco.
Cellario (economo) dell’abbazia benedettina di Hautevillers, paesino che si affaccia sulla Marna, Pérignon conduceva una vita serena ma, tutto sommato, anonima quando, un giorno, per caso (o per fortuna) gli capitò di intervenire sul processo di fermentazione del vino, che i monaci della sua abbazia producevano da secoli. Provò ad aggiungere dello zucchero durante la maturazione del mosto.
Nacque così il famoso vino dalle bollicine (perlage). E fu subito leggenda.
Il vino conquistò ben presto le mense aristocratiche, prima della regione dove veniva prodotto e, subito dopo, dell’intera Francia.
Non c’era casa nobiliare francese che non usasse lo Champagne, come segno di distinzione sociale.
E quando il vino approdò a Versailles, alla corte reale, fu la vera e autentica consacrazione.
Con il vino divenne famoso anche il suo creatore: Dom Pierre Pérignon, che seppe cavalcare abilmente il successo del momento, non per ottenere denaro, che pure arrivò copioso nelle casse della sua abbazia, ma per assecondare una sua curiosa debolezza: le dame del bel mondo dell’aristocrazia. Certo, inconfessabile per un monaco e, tuttavia, pressante e irrefrenabile.
Per la verità, qualche approccio galante l’aveva pure avuto, dato che si era guadagnata una discreta fama di confessore attento e scrupoloso. Ed era anche molto indulgente, nei confronti delle giovani penitenti, per le loro trasgressioni coniugali. Soprattutto, se consumate con il giovane confessore. Ma si trattava sempre di roba di poco conto, di popolane. Il simpatico monaco aspirava a ben altro. E lo Champagne gli venne in soccorso.
Scoprì (e aveva ragione) che il nobile vino non può essere bevuto in bicchieri di grossolano vetro. Si gusta di più, se assaporato lentamente in bicchieri di cristallo sottile sottile come chiffon.
Ed ecco la sua trovata: non in bicchieri di cristallo dalla foggia tradizionale, ma in bicchieri a forma di coppa, che però le fabbriche reali di cristalleria ancora non producevano, se non in modo approssimativo.
«Bisogna trovare una coppa ideale, e il suo stampo non può che essere il seno perfetto di una donna bellissima» fece sapere in giro l’abile monaco.
A quel punto la sfida era stata lanciata.
Se ne capì subito anche l’importanza. La donna, che avesse avuto la ventura di vincere la competizione, fornendo il proprio seno come stampo, avrebbe consegnato alla storia il proprio nome come simbolo di bellezza universale.
Le aristocratiche del luogo fecero a gara a invitare il geniale monaco nelle proprie lussuose dimore.
«E’ un bravo confessore!» dicevano agli ingenui mariti.

Dom Pérignon faceva il suo lavoro, con rigore professionale. Con estrema serietà. L’esame “obiettivo” della perfezione del seno, offerto alla sua valutazione, avveniva sempre in camera da letto, lontano da occhi indiscreti. Naturalmente, non poteva essere limitato alla sola parte del torace denudato.
«Il nudo femminile ha una sua armonia complessiva,» sosteneva alla candidata di turno, con pignoleria da medico curante, «per cui occorre che lei si spogli completamente».
E le aspiranti “miss seno più bello del mondo” si lasciavano convincere molto volentieri dall’affascinante monaco, senza fare molta resistenza.
Dom Pérignon ebbe il suo bel daffare per un lungo periodo di tempo: andava nelle dimore delle belle aristocratiche, “misurava e confessava”.
Dopo che ebbe “confessato” le più belle dame di tutta la regione, pensò che era arrivato il momento di portare la sua missione di “misuratore e confessore” all’interno della stessa reggia di Versailles. Non era facile, però.
Vi regnava un giovane sovrano potente e gaudente, che aveva imposto alla propria corte un rigido protocollo di accesso per tutti: aristocratici ed ecclesiastici.
Il re era Luigi XIV, le Roi Soleil.
Ma non disperò. Aspettò con calma che si presentasse l’opportunità giusta, che arrivò con l’ultima visita di “misurazione e confessione”. La richiesta gli venne, questa volta, dalla bellissima madame de Boucheron, dama di compagnia della Regina.
Il monaco fu più attento e scrupoloso del solito nella valutazione del bellissimo seno dell’avvenente dama e ancora più accurato nella “confessione”, che durò l’intera notte. L’indomani, entrambi esausti, si congedarono con la promessa del monaco di confessare più spesso la “contrita” penitente, e di un intervento di madame de Boucheron presso il cerimoniere di Versailles, per fargli avere un invito a corte.
Dopo qualche settimana Dom Pérignon fece il suo ingresso a Versailles, come assistente provvisorio del cappellano di corte e come confessore aggiunto. Era arrivato il momento che tanto aspettava. E lo sfruttò a dovere.
Quando mise piede nella reggia, restò letteralmente a bocca aperta davanti a quelle meraviglie. E dire che ne aveva visitate di dimore nobiliari e di castelli vari, per via della sua attività di “confessore”.
Centinaia di sale affrescate e ornate di stucchi dorati. E monumentali candelabri di cristallo di Murano e di Limoges, pendenti dai soffitti. E, alle pareti, preziose tele di Tiziano, Velasquez, Rubens e tanti altri. E preziosi arazzi Gobelins e fiamminghi, tramati di fili d’oro e d’argento. Mai vista, dal monaco, tanta ricchezza e tanto sfarzo concentrati in uno stesso luogo.
E che gente! Tutta la migliore nobiltà francese risiedeva in quelle stanze incantate, impiegando il proprio tempo tra lauti pranzi e leziosi minuetti. E quante dame da “confessare”!
Introdotto da madame de Boucheron, Dom Pérignon, che già era conosciuto e apprezzato come creatore dello Champagne, si mise tosto all’opera, alla ricerca del seno perfetto, come stampo per la coppa ideale di cristallo. E, a palazzo, il materiale umano da esaminare abbondava. Le sue qualità vennero subito apprezzate e divennero, anzi, argomento di amena e gustosa conversazione delle imparruccate e incipriate dame di corte, dietro lo sventolio civettuolo dei preziosi ventagli intarsiati e orlati di pizzo.
E dom Pérignon “misurava e confessava”.
Tutte le dame di corte, nessuna esclusa, erano in lista di attesa, per essere visitate. Comprese le “favorite” di turno del Roi Soleil. Anzi, erano proprio quelle che, più delle altre, facevano “dolce” pressione sul monaco, per aggiudicarsi l’agognato primato. Cosa non avrebbero dato, pur di vedere schiattare qualche odiatissima rivale! E quanti regalini ricevette!
A dom Pérignon il gioco piaceva. Era abbastanza furbo per capire che, se avesse proclamato una vincitrice scegliendo il suo seno come stampo per la coppa ideale, si sarebbe fatta un’amica ma, di contro, centinaia di nemiche. Non aveva fretta, dunque.
Capì tutto Molière, autore dei testi teatrali e capocomico della compagnia, che intratteneva gli aristocratici spettatori con esilaranti pièces, nel teatro di corte, dove non era raro vedere impegnato personalmente lo stesso re.
«L’importante è che non “confessiate” mia moglie» gli diceva divertito il grande commediografo.
«Il n’y a pas de problème» lo rassicurava, con fare ammiccante, il gaudente frate.
Nelle sue visite, gli capitò a volte di incrociare Luigi XIV, che usciva furtivo dagli appartamenti delle sue favorite.
«Mon cher ami» gli strizzava l’occhio, con sorriso complice, il sovrano, che era ben informato della sua attività di “consulente spirituale” delle dame di corte.
«Maestà!» rispondeva deferente Dom Perignon, con un grande inchino, ricambiando il sorriso, con compiacimento.

«Dom Pierre, la Regina vi vuole conoscere» gli confidò un giorno madame de Boucheron.
Questa proprio non se l’aspettava!
Dopo avere effettuato la visita e la “confessione”, con l’attenzione di sempre, il frate pensò:
«Questa è la volta buona per mettere fine a questa sfida. Se faccio vincere la regina, nessuna dama troverà da ridire sul verdetto, almeno ufficialmente. Anche se ha il seno che non è un granché».
E, poi, si era pure stancato di ricorrere a quello stucchevole espediente della gara della misurazione, per accedere negli appartamenti delle belle dame. Non ne aveva più bisogno: ormai veniva invitato liberamente dalle voluttuose aristocratiche con molta nonchalance.
Ma Dom Pérignon fece male i suoi calcoli.
Se ne rese conto, quando gli arrivò, tramite la solita amica, l’ambasceria dell’ultima favorita del re, la bellissima madame de Maintenon. E quella non era una favorita qualsiasi, era “la favorita delle favorite”! A tal punto che il sovrano, innamoratissimo, l’aveva sposata in segreto, con un matrimonio morganatico.
Il bravo monaco non poté sottrarsi all’invito. “Misurò e confessò” anche madame de Maintenon.
Ora il problema era grosso. Madame era persona molto influente a corte. Forse più della stessa regina. Non poteva tergiversare, ma intuiva il rischio che correva, nell’effettuare la scelta. In ogni caso, avrebbe avuto contro una delle persone più potenti di Francia.
«Adesso posso capire» pensò l’angosciato frate «cosa provò Paride, nel dover aggiudicare la famosa gara di bellezza tra Giunone, Minerva e Venere, e il prezzo alto che dovettero pagare, lui e la sua gente, per l’incauta decisione di eleggere Venere “la più bella del mondo”».
Queste e altre cose pensava, quando gli arrivò la notizia che il terribile cardinale Mazarino, primo ministro del re, l’aveva convocato nel suo studio.
«Ha saputo certamente, attraverso i suoi informatori, della mia attività di “confessore” e vuol farmela pagare» pensò, preoccupato, mentre si recava dal cardinale, che invece, stranamente, l’accolse con fare molto cordiale:
«Ne t’inquiète pas, mon ami. So della tua attività di “assistente spirituale” delle dame di corte. Ma questa volta l’hai combinata grossa!».
«Perché mai, eminenza?» rispose il frate, con un fil di voce e con le gambe che gli tremavano un po’.
«Non fare il finto tonto! Con questa storia del seno perfetto, da utilizzare come stampo, hai scatenato una feroce rivalità tra le due persone più potenti della corte di Versailles: la regina e madame de Maintenon. Rischi di vanificare gli sforzi che faccio da anni, per mantenere il delicatissimo equilibrio tra tutti i componenti della reggia, per il bene supremo della Francia».
«Ma eminenza, si tratta di un gioco innocente…» tentò di replicare timidamente il frastornato frate.
«E chiamalo innocente! Lo sai tu che le due “signore” esercitano un forte ascendente sul volubile carattere del sovrano? O fai finta di non saperlo? Dare qualche riconoscimento in più all’una o all’altra, anche se di natura frivola come l’apprezzamento estetico sulla perfezione del seno, significherebbe scatenare la guerra tra le due, mandando alla malora tutta la mia sottile opera di diplomazia».
«Perdonatemi, eminenza. Cosa posso fare per rimediare?» chiese l’attonito frate.
«Non devi far niente. Assolutamente niente. Non aggiudicare questa stupida gara. Prendi tempo, rinvia!».
«Ma..?».
«Non ci sono “ma” che tengano» disse, drastico, il cardinale. «Non temere per il risentimento e le punizioni delle “signore”. Me ne occupo io, personalmente. In caso contrario sai cosa rischi!». Così dicendo, si passò, in modo inequivocabile, l’indice della mano inanellata sul collo, da sinistra verso destra.
Mai messaggio al mondo avrebbe potuto essere più chiaro.
Il furbo Dom Pérignon capì e non decise mai. Fino alla fine dei suoi giorni.

La ricerca, comunque, continuò anche dopo di lui, per opera di altri frati “confessori” dell’abbazia di Hautevillers. Fu completata qualche tempo dopo, quando, a fornire lo stampo per la coppa ideale per lo Champagne, fu la cortigiana più famosa della Storia: Madame de Pompadour.
Gaetano Gaziano
tanogaziano@yahoo.it
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