sabato 23 luglio 2011

"LE VIN DU DIABLE"

E questo è il mio terzo racconto di...vino:
"LE VIN DU DIABLE"
Caro Maestro,
ho vissuto un episodio davvero fantastico. Fremo dalla voglia di raccontarvelo. "Ho bevuto le vin du diable!"*.
Cosi scrive Guy de Maupassant a Flaubert, in una lettera immaginaria**, dalla Sicilia dove si trova per il suo “grand tour”, nella primavera del 1885.
E continua: "E’ il famoso vino Malvasia, che si produce sull’isola di Salina. Ne volli bere un’intera bottiglia. E’ proprio il vino dei vulcani, denso, dolce, dorato, talmente pregno di zolfo che fino a sera ve ne rimane il gusto. Si direbbe il vino del diavolo".
Maupassant porta con sé una buona scorta del Malvasia lungo il suo tour. E’ generalmente incantato dalle testimonianze storiche, che scopre in Sicilia. Soprattutto dai "templi greci, quei monumenti belli e possenti che il popolo divino elevava ai suoi dèi umani".
Ma resta letteralmente folgorato di fronte alla prorompente bellezza della Venere di Siracusa, da tanto tempo vagheggiata.
La incontra dopo un lungo peregrinare per i siti siciliani più conosciuti. Giunto finalmente al museo di Siracusa, prega il suo gentile accompagnatore di non seguirlo nella sala dove la statua è custodita. Adesso è solo davanti a lei, a studiarne ogni centimetro del marmo.
Caro Maestro, "tante persone traversano continenti per raggiungere luoghi di culto e di miracoli; io ho portato le mie devozioni alla Venere di Siracusa. E’ la Venere Callipigia (riproduzione in alto), donata ai Siracusani da Eliogabalo", lo stravagante ventenne imperatore romano, trucidato dai suoi stessi pretoriani, che fece appena in tempo a introdurre a Roma il culto orientale del Sole e della Natura. Solo per questo motivo dovrebbe essere considerato il più grande imperatore dell’antichità classica.
L’immagine della sua Venere non l’abbandona mai per tutto il resto del viaggio in Sicilia. E’ un trascinarsi stanco da un luogo a un altro, senza trovare mai niente che l’attragga come quella donna di marmo. Per lui "Venere non è affatto la donna dei poeti, la donna divina o maestosa, è la donna tale come è, come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere".

E finalmente a Girgenti*** l’episodio fantastico.
Mi trovavo nella famosa Valle dei Templi. Avevo finito la visita di "quelle dimore eterne degli dèi, morti come i loro fratelli umani", e me ne stavo all’ombra di un secolare ulivo, ai piedi del tempio di Giunone Lacina, a godermi una leggera brezza di maestrale, sollievo effimero alla calura siciliana, che a volte, anche in primavera, diventa insopportabile. E, allora, cosa di meglio di un buon bicchiere di vino freddo a lenire la momentanea arsura? Tiro fuori dal mio zaino una bottiglia del Malvasia, di cui vi parlavo prima e di cui avevo pensato bene di fare una buona scorta a Salina. Bevo il vino, rinfrescato dal ghiaccio, che alcuni scugnizzi girgentani, dagli occhi vispi e furbi, vendono agli sparuti turisti, in forma di grattatelle, che raschiano da un pesante cubo di ghiaccio, contenuto in una cassetta di legno rivestita di zinco per renderla impermeabile».

Lo bevo lentamente per assaporarlo fino all’ultima goccia. Che gusto, che sollievo! Come scende facile il Malvasia freddo, caro Maestro! Credo (anzi, ne sono certo) di averne bevuta una bottiglia intera. Di colpo una visione paradisiaca: escono dalle colonne del tempio di Giunone, l’ultimo da me visitato, cinque splendide fanciulle girgentane, addobbate come ninfe con svolazzanti veli bianchi, che suonano flauti e tamburelli. Avevo appena letto nel mio Baedeker che il tempio custodì, si dice, il famoso quadro di Giunone, dipinto dal pittore greco Zeusi, il quale aveva preso per modelle le cinque più belle fanciulle di Akràgas. Ma, allora, sono loro (mi sono detto): le ninfe di Giunone!.
Non ho fatto neppure in tempo a riprendermi dallo stupore, che mi vedo prendere per mano da due di loro e condurre lungo un dolce pendio, attraverso la valle in fiore, popolata da quelle splendide sculture viventi, che sono i tronchi dei secolari ulivi. Le altre ninfe ci precedono con canti festosi, al suono dei flauti e dei tamburelli. Ci fermiamo appena giunti alla base della Rupe Atenea, che chiude a nord est la città di Girgenti. Il tratto percorso non è breve, ma non mi sento per nulla stanco. Il mio corpo ha perso il proprio peso, assumendo una levità inusuale per un viandante, che macina chilometri a piedi. Alla fine della salita, volgiamo a destra e ci troviamo di fronte a un dirupo, che si affaccia in una sottostante vallata.
Dall’alto non si vedono antiche vestigia. Si scorge, però, osservando attentamente tra una fitta vegetazione di arbusti, qualcosa che sembra somigliare a una antica porta muraria. Le ninfe mi invitano a scendere. Esito. Non vedo nessun sentiero. Mi precedono, indicandomi gli arbusti più radicati nella roccia, che fanno quasi da scala naturale. La discesa è molto difficoltosa, ma alla fine arriviamo a un pianoro, dove posso rifiatare e osservare con attenzione la porta, che ora mi sta di fronte. Più che di una porta, si tratta di un’enorme riquadratura in conci di tufo, che incornicia l’ingresso di una grotta naturale incavata nella costone calcarenitico. Ai lati della porta due vasche sempre in conci di tufo, con in fondo qualche centimetro d’acqua».
Mi rendo conto di essere di fronte a uno dei più misteriosi e, nel contempo, affascinanti templi dell’antichità: il Santuario rupestre di Demetra e Persefone. Ve ne erano pochissimi sparsi per la Grecia e per la Magna Grecia. E uno è proprio a Girgenti, l’antica Akràgas. Il mito vuole che vi si celebrassero i Misteri Eleusini: i riti propiziatori dedicati a Demetra, dea della terra, e alla figlia Persefone, rapita da Plutone, dio degli inferi. Questi templi non furono visti con favore pure nell’antichità, soprattutto dopo la conquista dei Romani, che si affrettarono a chiuderli al culto, in quanto ritenevano osceni i Misteri Eleusini
Beata ignoranza! Ma cosa può esserci al mondo di più profondamente umano del culto della Natura, con l’adorazione del Sole, della Terra e di tutte le sue creature? Il tempio rupestre di Demetra e Persefone era proprio il luogo più adatto a rinnovarne il rito. Già la bocca stessa della grotta, incorniciata dalla porta in conci di tufo, sembra richiamare l’organo femminile. Ed è giusto che sia cosi. Infatti la natura è essenzialmente femmina!.
Lo so a cosa state pensando: che sono ossessionato sempre dal sesso! Mi sembra ancora di sentire il Vostro affettuoso rimprovero, quando, appena adolescente, cominciai a frequentare quelle case dette di perdizione: “Dove vai, pistolet, ma tu hai sempre la testa a quella cosa lì?”****.
“Quella cosa lì”, caro Maestro, è il vero simbolo della Natura e il tempio rupestre davanti a me ne è l’autentica rappresentazione. Mi siedo ad ammirarlo che già si è fatto sera. Il rosso disco del sole è sparito nel mare africano e l’argenteo viso della luna comincia a fare capolino, dietro il sovrastante costone della Rupe Atenea.
All’improvviso, comincio a sentire come un gorgoglìo d’acqua, ma non vedo ruscelli intorno a me. Osservo, invece, che, dal fondo delle vasche di pietra, l’acqua comincia a risalire lentamente ribollendo ed emanando un acre odore di zolfo, fino a raggiungere il livello massimo delle vasche. Che strano, penso, somiglia a uno di quei fenomeni vulcanici, che ho avuto modo di vedere nel vicino paese di Aragona, nella contrada che chiamano “Le Maccalube”. Contemporaneamente un dolce suono, come di flauti e cetre, proviene dalla grotta, che improvvisamente si illumina dall’interno. Dal fondo della grotta incede lentamente, con il sorriso più accattivante di questo mondo, una giovane fanciulla vestita di bianco, con il capo cinto da una corona di margherite, le stesse che avevo visto salendo per la valle, e con una melagrana in mano.
Ma è lei, esclamo, è Persefone! I simboli, che porta con sé, non dànno adito a dubbi: la corona di margheritine rappresenta la Primavera, la melagrana la fertilità della terra. Giunta sul limitare della grotta, la giovane attraversa la porta e guarda verso di me, ma sembra non vedermi, poi si gira a destra e a manca, a cercare qualcuno, che non tarda ad arrivare. Infatti, subito dopo un’altra luce si accende più in alto, proveniente da un’altra grotta, che prima non avevo notato, coperta com’è quasi completamente da arbusti. Anche da lì, preceduta da una soave melodia, compare una bellissima donna, coperta di veli gialli, che porta in mano spighe di grano. E’ Demetra, la dea della Terra, madre di Persefone. Anche lei si guarda intorno e appena scorge la figlia corre ad abbracciarla».
Ma ci pensate, Maestro, che fortuna? Sono l’unico mortale, che ha il privilegio di avere assistito all’incontro tra Demetra e Persefone, che, secondo l’imperscrutabile volere di Zeus, deve trascorrere sei mesi all’anno agli inferi con il dio Plutone, suo marito, e il restante periodo sulla terra, con la madre. Mai, credetemi, incontro è stato più commovente, anche se si ripete ormai da parecchi millenni. La Dea della Terra abbraccia l’adorata figlia e, con lei, sparisce tra la vegetazione, per restituirla, secondo il mito, dopo sei mesi, all’inizio dell’inverno.
Ma non è finita qui, caro Maestro, il più bello Ve lo devo ancora raccontare. D’un tratto, la stessa grotta, da dove è uscita Demetra, s’illumina di una luce ancora più intensa e vedo procedere, dal fondo di essa, un’altra figura di donna più incantevole delle precedenti, che, però, ancora non distinguo bene. Ecco ora la scorgo meglio: è lei, non posso crederci, la Venere Callipigia, la “mia” Venere! Stavolta in carne e ossa, che avanza con incedere misurato ed elegante; il viso radioso; i capelli ricci biondi, annodati dietro la nuca. "E’ prosperosa, col seno florido nudo, l’anca robusta e la gamba vigorosa; è una Venere carnale, che, quando la si vede in piedi, è naturale immaginarla coricata. Il braccio destro cela i seni; con la mano sinistra solleva un panno, col quale copre, con grazia, i fascini più intimi. Questo gesto semplice e naturale, pregno di pudore e di sensualità, che nasconde e mostra, che vela e svela, che attrae e allontana, sembra definire tutti i caratteri della donna sulla terra".
A differenza delle altre due divinità, lei mi scorge e mi invita ad avvicinarmi, con un sorriso che le illumina il volto. "Ha quel fascino del sorriso nato da una piega delle labbra e da un luccichio di smalto, nella grazia delle forme e dei movimenti fatti a caso". A questo punto, avanzo incantato verso di lei. Sorride, sorrido anch’io. Lentamente avvicina la sua mano destra e sfiora appena appena il mio volto. Che emozione, caro Maestro, "quel gesto soave esprime tutta la reale poesia della carezza!".
Inebriato e tremante mi risveglio, sotto l’albero dell’ulivo, ai piedi del tempio di Giunone. Accanto a me la bottiglia vuota del Malvasia e in bocca ancora il sapore sulfureo del vino. Incredibile, Maestro! Ho vissuto l’esperienza onirica più esaltante della mia vita. E allora dico grazie alla Sicilia, grazie a Girgenti ma, soprattutto, merci au vin du diable».

* Le frasi virgolettatte sono tratte dal resoconto di viaggio di Guy de Maupassant: “La vie errante”. Capitolo: “La Sicilie”- 1885.
** Lettera immaginaria, che Maupassant non ha mai scritto, anche perché
Flaubert era morto cinque anni prima che M. realizzasse il suo viaggio in
Sicilia.
*** Girgenti è l’attuale Agrigento.
**** L’espressione “Dove vai pistolet…” è contenuta nel diario che Flaubert
tenne durante il viaggio che effettuò in Svizzera con Maupassant nel 1876
Gaetano Gaziano
tanogaziano@yahoo.it
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mercoledì 20 luglio 2011

Rigassificatore di Porto Empedocle: oggi è un giorno triste ma non ci arrendiamo

Oggi è un giorno triste: apprendiamo che il Consiglio di Stato ha ieri deciso di accettare i ricorsi di Enel e del comune di Porto Empedocle, dando così il via libera alla costruzione di un rigassificatore da 8 miliardi di mc a Porto Empedocle sotto la Valle dei Templi di Agrigento, patrimonio Unesco.
Ma non ci arrendiamo!
Le associazioni stanno valutando i rimedi giuridici, e ce ne sono, di contrastare il progetto industriale gasiero che, se realizzato, snaturerà irreversibilmente la vocazione economica del nostro territorio che è e non può che essere quella del turismo culturale.
Si ringrazia intanto il Sindaco di Agrigento, Marco Zambuto, che, sposando la nostra causa, non ha esitato a schierarsi a nostro fianco con grande coraggio.
Sappiamo quali e quante pressioni politiche ha ricevuto e gli attacchi violenti di Confindustria.
Grazie, Marco.
Le associazioni, che si sono battute per contrastare i poteri forti, ti dicono che continueranno la lotta e sono certe che ti avranno sempre a loro fianco.
Gaetano Gaziano
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martedì 19 luglio 2011

Rigassificatore: entro otto giorni la sentenza del Consiglio di Stato

Oggi c'è stata l'udienza conclusiva della sesta sezione del Consiglio di Stato, presieduta dal Dr. Giuseppe Severini, sulla vicenda del rigassificatore di Porto Empededocle sotto la Valle dei Templi dichiarata patrimonio Unesco.
Gli avvocati difensori del Comune di Agrigento, della Camera di Commercio, di Legambiente, di Italia Nostra, di Codacons, di Arci e di tante altre associazioni, compresa la nostra, hanno esposto le ultime argomentazioni contro la realizzazione dell'impianto.
Desideriamo ringraziare, intanto, tutti gli avvocati che, oltre alla propria professionalità, hanno profuso un quid in più: la loro passione civile per contrastare un opera che, se realizzata, supponiamo sarà ritenuta motivo di ignominia dal mondo intero della cultura per noi Italiani tutti.
Il dispositivo della sentenza verrà dato entro 8 giorni. Per le motivazioni bisognerà attendere qualche mese.
Incrociamo le dita!
Gaetano Gaziano
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giovedì 7 luglio 2011

Il verdetto di Dom Pérignon

Questo il secondo dei miei racconti, tratto dalla raccolta "Il Bacchino ubriaco e altre storie" edita da Excogita di Milano
°°°°°°°°
"Il verdetto di Dom Pérignon"
Dom Pierre Pérignon era il monaco più famoso di Francia.
E per due motivi: aveva creato il celebre vino “Champagne” e godeva di fama di tombeur de femmes. Anche se monaco. Anzi, proprio perché monaco.
Cellario (economo) dell’abbazia benedettina di Hautevillers, paesino che si affaccia sulla Marna, Pérignon conduceva una vita serena ma, tutto sommato, anonima quando, un giorno, per caso (o per fortuna) gli capitò di intervenire sul processo di fermentazione del vino, che i monaci della sua abbazia producevano da secoli. Provò ad aggiungere dello zucchero durante la maturazione del mosto.
Nacque così il famoso vino dalle bollicine (perlage). E fu subito leggenda.
Il vino conquistò ben presto le mense aristocratiche, prima della regione dove veniva prodotto e, subito dopo, dell’intera Francia.
Non c’era casa nobiliare francese che non usasse lo Champagne, come segno di distinzione sociale.
E quando il vino approdò a Versailles, alla corte reale, fu la vera e autentica consacrazione.
Con il vino divenne famoso anche il suo creatore: Dom Pierre Pérignon, che seppe cavalcare abilmente il successo del momento, non per ottenere denaro, che pure arrivò copioso nelle casse della sua abbazia, ma per assecondare una sua curiosa debolezza: le dame del bel mondo dell’aristocrazia. Certo, inconfessabile per un monaco e, tuttavia, pressante e irrefrenabile.
Per la verità, qualche approccio galante l’aveva pure avuto, dato che si era guadagnata una discreta fama di confessore attento e scrupoloso. Ed era anche molto indulgente, nei confronti delle giovani penitenti, per le loro trasgressioni coniugali. Soprattutto, se consumate con il giovane confessore. Ma si trattava sempre di roba di poco conto, di popolane. Il simpatico monaco aspirava a ben altro. E lo Champagne gli venne in soccorso.
Scoprì (e aveva ragione) che il nobile vino non può essere bevuto in bicchieri di grossolano vetro. Si gusta di più, se assaporato lentamente in bicchieri di cristallo sottile sottile come chiffon.
Ed ecco la sua trovata: non in bicchieri di cristallo dalla foggia tradizionale, ma in bicchieri a forma di coppa, che però le fabbriche reali di cristalleria ancora non producevano, se non in modo approssimativo.
«Bisogna trovare una coppa ideale, e il suo stampo non può che essere il seno perfetto di una donna bellissima» fece sapere in giro l’abile monaco.
A quel punto la sfida era stata lanciata.
Se ne capì subito anche l’importanza. La donna, che avesse avuto la ventura di vincere la competizione, fornendo il proprio seno come stampo, avrebbe consegnato alla storia il proprio nome come simbolo di bellezza universale.
Le aristocratiche del luogo fecero a gara a invitare il geniale monaco nelle proprie lussuose dimore.
«E’ un bravo confessore!» dicevano agli ingenui mariti.

Dom Pérignon faceva il suo lavoro, con rigore professionale. Con estrema serietà. L’esame “obiettivo” della perfezione del seno, offerto alla sua valutazione, avveniva sempre in camera da letto, lontano da occhi indiscreti. Naturalmente, non poteva essere limitato alla sola parte del torace denudato.
«Il nudo femminile ha una sua armonia complessiva,» sosteneva alla candidata di turno, con pignoleria da medico curante, «per cui occorre che lei si spogli completamente».
E le aspiranti “miss seno più bello del mondo” si lasciavano convincere molto volentieri dall’affascinante monaco, senza fare molta resistenza.
Dom Pérignon ebbe il suo bel daffare per un lungo periodo di tempo: andava nelle dimore delle belle aristocratiche, “misurava e confessava”.
Dopo che ebbe “confessato” le più belle dame di tutta la regione, pensò che era arrivato il momento di portare la sua missione di “misuratore e confessore” all’interno della stessa reggia di Versailles. Non era facile, però.
Vi regnava un giovane sovrano potente e gaudente, che aveva imposto alla propria corte un rigido protocollo di accesso per tutti: aristocratici ed ecclesiastici.
Il re era Luigi XIV, le Roi Soleil.
Ma non disperò. Aspettò con calma che si presentasse l’opportunità giusta, che arrivò con l’ultima visita di “misurazione e confessione”. La richiesta gli venne, questa volta, dalla bellissima madame de Boucheron, dama di compagnia della Regina.
Il monaco fu più attento e scrupoloso del solito nella valutazione del bellissimo seno dell’avvenente dama e ancora più accurato nella “confessione”, che durò l’intera notte. L’indomani, entrambi esausti, si congedarono con la promessa del monaco di confessare più spesso la “contrita” penitente, e di un intervento di madame de Boucheron presso il cerimoniere di Versailles, per fargli avere un invito a corte.
Dopo qualche settimana Dom Pérignon fece il suo ingresso a Versailles, come assistente provvisorio del cappellano di corte e come confessore aggiunto. Era arrivato il momento che tanto aspettava. E lo sfruttò a dovere.
Quando mise piede nella reggia, restò letteralmente a bocca aperta davanti a quelle meraviglie. E dire che ne aveva visitate di dimore nobiliari e di castelli vari, per via della sua attività di “confessore”.
Centinaia di sale affrescate e ornate di stucchi dorati. E monumentali candelabri di cristallo di Murano e di Limoges, pendenti dai soffitti. E, alle pareti, preziose tele di Tiziano, Velasquez, Rubens e tanti altri. E preziosi arazzi Gobelins e fiamminghi, tramati di fili d’oro e d’argento. Mai vista, dal monaco, tanta ricchezza e tanto sfarzo concentrati in uno stesso luogo.
E che gente! Tutta la migliore nobiltà francese risiedeva in quelle stanze incantate, impiegando il proprio tempo tra lauti pranzi e leziosi minuetti. E quante dame da “confessare”!
Introdotto da madame de Boucheron, Dom Pérignon, che già era conosciuto e apprezzato come creatore dello Champagne, si mise tosto all’opera, alla ricerca del seno perfetto, come stampo per la coppa ideale di cristallo. E, a palazzo, il materiale umano da esaminare abbondava. Le sue qualità vennero subito apprezzate e divennero, anzi, argomento di amena e gustosa conversazione delle imparruccate e incipriate dame di corte, dietro lo sventolio civettuolo dei preziosi ventagli intarsiati e orlati di pizzo.
E dom Pérignon “misurava e confessava”.
Tutte le dame di corte, nessuna esclusa, erano in lista di attesa, per essere visitate. Comprese le “favorite” di turno del Roi Soleil. Anzi, erano proprio quelle che, più delle altre, facevano “dolce” pressione sul monaco, per aggiudicarsi l’agognato primato. Cosa non avrebbero dato, pur di vedere schiattare qualche odiatissima rivale! E quanti regalini ricevette!
A dom Pérignon il gioco piaceva. Era abbastanza furbo per capire che, se avesse proclamato una vincitrice scegliendo il suo seno come stampo per la coppa ideale, si sarebbe fatta un’amica ma, di contro, centinaia di nemiche. Non aveva fretta, dunque.
Capì tutto Molière, autore dei testi teatrali e capocomico della compagnia, che intratteneva gli aristocratici spettatori con esilaranti pièces, nel teatro di corte, dove non era raro vedere impegnato personalmente lo stesso re.
«L’importante è che non “confessiate” mia moglie» gli diceva divertito il grande commediografo.
«Il n’y a pas de problème» lo rassicurava, con fare ammiccante, il gaudente frate.
Nelle sue visite, gli capitò a volte di incrociare Luigi XIV, che usciva furtivo dagli appartamenti delle sue favorite.
«Mon cher ami» gli strizzava l’occhio, con sorriso complice, il sovrano, che era ben informato della sua attività di “consulente spirituale” delle dame di corte.
«Maestà!» rispondeva deferente Dom Perignon, con un grande inchino, ricambiando il sorriso, con compiacimento.

«Dom Pierre, la Regina vi vuole conoscere» gli confidò un giorno madame de Boucheron.
Questa proprio non se l’aspettava!
Dopo avere effettuato la visita e la “confessione”, con l’attenzione di sempre, il frate pensò:
«Questa è la volta buona per mettere fine a questa sfida. Se faccio vincere la regina, nessuna dama troverà da ridire sul verdetto, almeno ufficialmente. Anche se ha il seno che non è un granché».
E, poi, si era pure stancato di ricorrere a quello stucchevole espediente della gara della misurazione, per accedere negli appartamenti delle belle dame. Non ne aveva più bisogno: ormai veniva invitato liberamente dalle voluttuose aristocratiche con molta nonchalance.
Ma Dom Pérignon fece male i suoi calcoli.
Se ne rese conto, quando gli arrivò, tramite la solita amica, l’ambasceria dell’ultima favorita del re, la bellissima madame de Maintenon. E quella non era una favorita qualsiasi, era “la favorita delle favorite”! A tal punto che il sovrano, innamoratissimo, l’aveva sposata in segreto, con un matrimonio morganatico.
Il bravo monaco non poté sottrarsi all’invito. “Misurò e confessò” anche madame de Maintenon.
Ora il problema era grosso. Madame era persona molto influente a corte. Forse più della stessa regina. Non poteva tergiversare, ma intuiva il rischio che correva, nell’effettuare la scelta. In ogni caso, avrebbe avuto contro una delle persone più potenti di Francia.
«Adesso posso capire» pensò l’angosciato frate «cosa provò Paride, nel dover aggiudicare la famosa gara di bellezza tra Giunone, Minerva e Venere, e il prezzo alto che dovettero pagare, lui e la sua gente, per l’incauta decisione di eleggere Venere “la più bella del mondo”».
Queste e altre cose pensava, quando gli arrivò la notizia che il terribile cardinale Mazarino, primo ministro del re, l’aveva convocato nel suo studio.
«Ha saputo certamente, attraverso i suoi informatori, della mia attività di “confessore” e vuol farmela pagare» pensò, preoccupato, mentre si recava dal cardinale, che invece, stranamente, l’accolse con fare molto cordiale:
«Ne t’inquiète pas, mon ami. So della tua attività di “assistente spirituale” delle dame di corte. Ma questa volta l’hai combinata grossa!».
«Perché mai, eminenza?» rispose il frate, con un fil di voce e con le gambe che gli tremavano un po’.
«Non fare il finto tonto! Con questa storia del seno perfetto, da utilizzare come stampo, hai scatenato una feroce rivalità tra le due persone più potenti della corte di Versailles: la regina e madame de Maintenon. Rischi di vanificare gli sforzi che faccio da anni, per mantenere il delicatissimo equilibrio tra tutti i componenti della reggia, per il bene supremo della Francia».
«Ma eminenza, si tratta di un gioco innocente…» tentò di replicare timidamente il frastornato frate.
«E chiamalo innocente! Lo sai tu che le due “signore” esercitano un forte ascendente sul volubile carattere del sovrano? O fai finta di non saperlo? Dare qualche riconoscimento in più all’una o all’altra, anche se di natura frivola come l’apprezzamento estetico sulla perfezione del seno, significherebbe scatenare la guerra tra le due, mandando alla malora tutta la mia sottile opera di diplomazia».
«Perdonatemi, eminenza. Cosa posso fare per rimediare?» chiese l’attonito frate.
«Non devi far niente. Assolutamente niente. Non aggiudicare questa stupida gara. Prendi tempo, rinvia!».
«Ma..?».
«Non ci sono “ma” che tengano» disse, drastico, il cardinale. «Non temere per il risentimento e le punizioni delle “signore”. Me ne occupo io, personalmente. In caso contrario sai cosa rischi!». Così dicendo, si passò, in modo inequivocabile, l’indice della mano inanellata sul collo, da sinistra verso destra.
Mai messaggio al mondo avrebbe potuto essere più chiaro.
Il furbo Dom Pérignon capì e non decise mai. Fino alla fine dei suoi giorni.

La ricerca, comunque, continuò anche dopo di lui, per opera di altri frati “confessori” dell’abbazia di Hautevillers. Fu completata qualche tempo dopo, quando, a fornire lo stampo per la coppa ideale per lo Champagne, fu la cortigiana più famosa della Storia: Madame de Pompadour.
Gaetano Gaziano
tanogaziano@yahoo.it
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martedì 5 luglio 2011

Rigassificatore: lettera aperta di Roberto Gallo al presidente D'Orsi

Bravo Roberto Gallo!
Stai svolgendo fino in fondo il tuo compito di consigliere provinciale di Agrigento.
E questo ti fa onore.
Pubblichiamo volentieri sul nostro blog la tua lettera aperta inviata al presidente della Provincia di Agrigento per invitarlo a costituirsi dinanzi al consiglio di Stato nella vertenza che vede impegnati il Comune di Agrigento e diverse associazioni agrigentine, compresa la nostra, a contrastare l'ignobile progetto di costruire un rigassificatore da 8 miliardi di mc. sotto la Valle dei Templi di Agrigento, patrimonio Unesco.
Gaetano Gaziano
°°°°°
Questo il testo integrale della lettera aperta del consigliere Gallo:
"Caro presidente D’Orsi , la mia ultima interrogazione sul rigassificatore che venerdi’ 01 luglio 2011 ho formalmente presentato , era orientata a richiamarla al suo ruolo , ed in particolare alle sue responsabilita’ su temi cosi’ delicati quali lo sviluppo del territorio, e quali le regole che impongono al Capo dell’amm.ne di tenere in considerazione i deliberati che il Consiglio vota a maggioranza.
Cio’ detto , ricordandole che il 19 luglio è prevista l’udienza al Consiglio di Stato sull’argomento, dopo che il TAR Lazio aveva bocciato l’impianto autorizzativo al rigassificatore , e quindi a seguito del controricorso fatto da chi è favorevole a realizzare il rigassificatore , LE CHIEDO di valutare bene la possibilita’ di costituirsi in giudizio , sottolineando che il Consiglio Provinciale di Ag che rappresenta la maggioranza degli elettori Agrigentini si è gia’ espresso in tal senso.
Ribadisco, che la presenza all’udienza del Consiglio di Stato , rappresenterebbe per Lei una opportunita’ di dare un segnale forte alla Comunita’ Agrigentina ed anche verso tutti i Consiglieri Provinciali . Se Lei ritiene che il rigassificatore sia una possibilita’ positiva per il nostro territorio, nessuno le chiede di cambiare opinione , ma ripeto ancora, non sprechi questa occasione di dimostrare che ha rispetto per il Consiglio Provinciale e le prerogative ad esso collegate.
Malgrado la decorrenza dei termini siamo ancora in tempo per avere un Legale che per conto della Provincia sia presente al Consiglio di Stato il 19 luglio a Roma. Ancorche’ non potra’ presentere una memoria scritta , il Legale potra’ intervenire nel dibattimento e ribadire che la Provincia di Agrigento ritiene fondamentale la correttezza delle procedure autorizzative , ed anche le perplessita’ che il Consiglio Provinciale ha espresso a maggioranza sull’argomento.
Questo caro D’Orsi non la obblighera’ a cambiare le sue opinioni , ma le dara’ una giusta visibilita’ di grande trasparenza amm.va , e perche’ no di una giusto migliore rapporto col Consiglio.
Cordialmente, Roberto Gallo".
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lunedì 27 giugno 2011

"EST! EST!! EST!!!"

Siamo in estate e voglio offrire ai lettori di questo blog qualcuno dei miei racconti che parlano di vino, d'amore, di gioia di vivere.
La raccolta completa dal titolo "Il Bacchino ubriaco e altre storie" è pubblicata dall'editrice Excogita di Milano, che gentilemnte concede di inserirli in questo blog.

Ed ecco il primo dei racconti.

"Est! Est!! Est!!!"
Sua Eminenza, Giovanni Defùk, era un intenditore di vini. E non solo.
Vescovo cattolico di Magonza, gestiva la sua diocesi con modi garbati e con fare bonario.
Nella sua diocesi, per esempio, non erano mai stati celebrati processi contro streghe o eretici (e siamo in pieno Medio Evo).
«Sono farina del diavolo!» diceva delle lettere anonime, che pure gli arrivavano copiose, a denunciare pratiche di stregoneria o di eresia.
Il palazzo del vescovado era aperto a tutti, dal Borgomastro all’ultimo contadino, ogni giorno della settimana, tranne in alcuni giorni, durante i quali l’accesso era rigorosamente “verboten”.
«Sua Eminenza fa gli “esercizi spirituali”» era la motivazione ufficiale del segretario personale, frate Martino.
Quando era “in ritiro”, Sua Eminenza amava rinfrescare i momenti di “meditazione” con l’ottimo bianco del Reno, raffreddato con la neve, nelle cantine del vescovado.
E ad assistere Sua Eminenza, durante gli “esercizi spirituali”, erano sempre alcune suore di clausura non giovanissime, quelle più mature.
«Sono le più esperienti!» confidava malizioso al segretario Martino, che in tale circostanza assumeva anche le vesti di coppiere.
L’aspetto rilassato e soddisfatto di mons. Defùk, alla fine degli “esercizi”, ne testimoniava la validità e l’efficacia.
Le guance arrossate e l'aspetto rubizzo la dicevano lunga sullo stato di generale benessere procuratogli dalla lunga attività di “raccoglimento”.
Lo sguardo sorridente e furbo aggiungeva simpatia al suo volto rotondo e pacioso, espressione di serenità e bonomia.
L’Imperatore Enrico V conosceva bene l’attitudine di mons. Defùk a ritirarsi spesso in “meditazione”. Ma gli voleva bene anche per questo.
E, poi, in quel preciso momento storico aveva bisogno delle sue abili doti diplomatiche, di cui gli faceva ampio credito.
Correva l’anno del Signore 1111 e quell’intollerante, per lui, papa Pasquale II, a Roma, non si decideva a legittimarne l’autorità imperiale, rifiutandosi di incoronarlo come Imperatore del Sacro Romano Impero.
«Andremo a Roma a farmi incoronare!» disse all’esterrefatto vescovo.
«Non capisco “quell’andremo”» disse mons. Defùk all’Imperatore. «Cosa devo venirci a fare io a Roma, Maestà?».
«Voi siete il mio più fidato consigliere diplomatico» rispose, deciso, l’Imperatore.
«Sfrutterò al meglio la vostra abilità a trattare con Roma. Vorrei evitare di usare altri argomenti forse più convincenti, ma che ritengo, al momento, meno opportuni».
Quando parlava di “argomenti più convincenti”, si riferiva al potente esercito con cui si apprestava a scendere in Italia.
«In verità, non mi sento di affrontare un viaggio così faticoso» insistette timidamente mons. Defùk, riluttante a lasciare le comodità e gli agi della sua tranquilla diocesi di Magonza.
«Ci tengo!» disse, risoluto, l’imperatore. «E, poi, l’Italia è anche terra di buon vino e di belle donne» continuò, sapendo di colpire nel segno.
«Davvero?» chiese, curioso, monsignore, che non aveva mai messo il naso fuori dai confini della sua diocesi.
«Il migliore e le più belle del mondo!» fece l’Imperatore, strizzandogli l’occhio.
«Verrò!» disse, allora, convinto il prelato.
Il viaggio, intrapreso verso l’Italia, doveva essere per l’Imperatore una missione diplomatica. Per mons. Defùk un piacere dello spirito e… del corpo.
E, in effetti, fu entrambe le cose.
L’Imperatore, assistito dal suo consulente diplomatico, man mano che si avvicinava a Roma, preparava e affinava le argomentazioni politico-giuridiche per convincere Sua Santità a legittimare la sua aspirazione a essere incoronato. A ogni buon conto, aveva sempre l’argomento di riserva: il suo potente esercito.
Mons. Defùk, deciso a godere dei vantaggi turistico-gastronomico-enologici della spedizione, più che di quelli politici, non avendo informazioni precise sul vino e sull’ospitalità delle varie taberne e hostarie che incontravano lungo il loro itinerario, si faceva precedere dal proprio segretario, il frate-coppiere Martino, a saggiarne la bontà.
Il segnale convenuto, dell’eseguita indagine, era tanto semplice quanto originale: un cartello con la scritta “Est!”, affisso dallo scaltro frate sulla porta della locanda visitata, era un messaggio in codice, ma eloquente per mons. Defùk, che buono era il vino; che altrettanto buona era l’ospitalità. E per “ospitalità” sapeva bene cosa intendesse il suo padrone.
La doppia scritta “Est! Est!!” stava a indicare il livello di eccellenza dei “prodotti” testati.
Questa semplice ma genialissima precauzione mise al riparo il nostro monsignore da indesiderate quanto spiacevoli sorprese e gli consentì di apprezzare la bontà dei vini italiani e l’ “ospitalità” delle compiacenti locandiere, preventivamente selezionate.
Giunta la spedizione nello Stato della Chiesa, alle porte del ridente e assolato paesino di Montefiascone, mons. Defùk si congedò dall’Imperatore, che, come al solito, veniva ospitato dalle potenti famiglie aristocratiche, che incontrava lungo il viaggio.
«Non capisco questa vostra predilezione per le locande» osservò l’Imperatore. «Non stareste meglio nella casa nobiliare, che ci ospita in questo delizioso paese?».
«No, Maestà! Preferisco le locande. Mi consentono di conoscere meglio la gente del luogo» rispose, ammiccando, monsignore e si avviò alla locanda, precedentemente “esplorata” da fra’ Martino.
Arrivato al centro del paese, in compagnia del suo fedele segretario, monsignore individuò subito la dimora prescelta, in quanto il solito cartello faceva bella mostra di sé sul portone d’ingresso della locanda “ALLA POLLASTRA ZOPPA”.
Avvicinatosi, mons. Defùk lesse, con sorpresa, la scritta “Est! Est!! Est!!!”.
«Come mai tre volte est?» chiese, curioso, al suo segretario.
«Vedrete, Eminenza, e capirete!» rispose, sornione, fra’ Martino.
Annunciato il loro arrivo dal frate, venne ad accogliere gli ospiti una splendida locandiera dall’apparente età di 30-35 anni, occhi neri, ardenti come tizzoni.
«Benvenuti, sono la sora Gina, la proprietaria della locanda, accomodatevi!» disse, con il sorriso più accattivante di questo mondo.
«Ecco spiegato il triplice est!» pensò, compiaciuto, monsignore.
La sora Gina li precedette, per accompagnarli nei rispettivi alloggiamenti.
Monsignore, mentre la seguiva, studiò con occhio di esperto il corpo dell’avvenente locandiera, apprezzandone le procaci forme, che pure si intuivano, sotto l’abbondante veste. Notò, inoltre, che era leggermente claudicante, ma che la sora Gina mascherava abilmente il lieve difetto fisico, ancheggiando con civetteria, cosa che la rendeva ancora più attraente.
«Questa donna deve essere davvero eccezionale,» pensò il prelato buongustaio, «se, con spirito di grande autoironia, non ha esitato a dare alla sua locanda, il nome di “ALLA POLLASTRA ZOPPA”».
La sora Gina sistemò fra’ Martino a piano terra, in una calda stanza adiacente alla cucina, e monsignore di sopra, in una confortevole camera arredata con gusto e sobrietà, accanto alla propria stanza da letto.
«Hic manebimus optime!» pensò mons. Defùk, mentre sistemava i suoi bagagli.
Fra’ Martino si prese cura di fare sloggiare i pochi avventori presenti in quel momento nella locanda, con il convincente argomento dell’elargizione di qualche moneta d’oro, e di affiggere prontamente sulla porta di ingresso la scritta “Locanda occupata dai dignitari di corte di Sua Maestà, l’Imperatore Enrico V”.
Mons. Defùk trascorse “i giorni più belli della mia vita”, come annotò nel suo diario di viaggio, oggi conservato tra i documenti “Top Secret” del Vaticano, accudito esclusivamente dalla bella Gina e dal frate coppiere.
“Mai, prima d’ora, avevo gustato un vino così eccellente come quello che si produce in queste terre”.
Niente è riferito nel diario (si pensa per discrezione) sulle amorevoli cure, che prodigò la sora Gina per rendere “indimenticabile” il viaggio di monsignore.
La leggenda ci tramanda, comunque, che i vicini, nei momenti di maggiore “trasporto mistico” della coppia, abbiano percepito inequivocabili gridolini di benessere “Est! Est!! Est!!! ”, provenienti dalla stanza da letto di mons. Defùk.
Dopo tre giorni, l’Imperatore, spazientito, per aver dovuto rallentare la marcia verso Roma a causa delle “meditazioni” del proprio consigliere diplomatico, lo mandò a chiamare categoricamente.
«Perdonatemi, Maestà, ho dovuto approfondire le argomentazioni giuridiche...».
«Conosco bene la vostra attività di “approfondimento”!» lo bloccò, con un sorriso, l’Imperatore. «Basta, si va a Roma!».

La discussione con Pasquale II, sulla controversia dell’incoronazione, non fu né semplice né sempre improntata a comportamenti diplomatici. Tutt’altro. A volte fu, addirittura, costellata da momenti drammatici, anche cruenti, perché non era limitata alla sola formalità del riconoscimento papale dell’autorità imperiale di Enrico V, ma era, altresì, collegata con annose problematiche di spartizione di interi Stati, tra le potenti famiglie reali europee del tempo.
Alla fine, comunque, prevalse il buon senso e venne trovato un compromesso onorevole per entrambe le parti, grazie anche all’abile opera di mediazione di mons. Defùk.
La cerimonia di incoronazione, celebrata a Roma il 13 aprile del 1111, fu sfarzosa: l’imperatore Enrico V era raggiante, gongolante e soddisfatto il suo consigliere diplomatico.
A conclusione della cerimonia, mons. Defùk chiese e ottenne udienza privata da Papa Pasquale II.
«Santità,» esordì, con deferenza, «ho da rappresentarvi un’esigenza, che non è solo mia, per la verità, ma del clero di tutto il mondo».
«Dite pure!» lo incoraggiò, con un largo sorriso, il Papa, che, durante le giornate di discussione della controversia imperiale, aveva avuto occasione di apprezzarne le notevoli qualità diplomatiche.
«L’obbligo del celibato è diventato pesante e insostenibile! Penso che potremmo svolgere il nostro ministero più adeguatamente, se le nostre giornate fossero riscaldate dall’amore di una compagna…» mons. Defùk iniziò a perorare la causa che più gli premeva, con fare accorato, ma osservò che Sua Santità, a quelle parole, si irrigidì subito, diventando scuro in volto.
«Le tradizioni vanno rispettate. Il nostro compito è quello di servire Cristo e la Chiesa!» lo troncò, con durezza, Pasquale II.
«Capisco» rispose mons. Defùk, inghiottendo amaro.
«Pasquale II da questo orecchio non ci sente!» pensò, osservando che, a differenza di quasi tutti i pontefici che l’avevano preceduto sul soglio di Pietro, quel Papa amava farsi assistere da giovani e aitanti chierici, piuttosto che da suore.
E non insistette.
Sulla strada del ritorno, giunti che furono a Montefiascone, monsignore prese la sua storica decisione.
«Maestà, il mio viaggio è finito, mi fermo in questi luoghi dove ho trovato amore, felicità ed eccellente vino!» comunicò al suo Imperatore.
«Non posso darvi torto!» fu la risposta compiaciuta di Enrico V, che lo nominò barone dell’Impero, per compensarlo sia della rinuncia al posto di vescovo di Magonza che per il successo della missione diplomatica.
Mons. Defùk trascorse il resto della sua vita a Montefiascone, accanto alla sua adorata Gina, nella tenuta, che aveva comprato con la dote dell’Imperatore, coltivando la terra e, soprattutto, producendo quell’ottimo vino, che, da quel momento e in suo onore, porta il nome di “Est! Est!! Est!!!”, di cui fu anche il più convinto estimatore e consumatore.
Monsignore si fece amare dalla gente del luogo per l’attività di grande benefattore e, alla sua morte, per aver donato tutti i propri beni alla comunità di Montefiascone, fu sepolto nella chiesa romanica di S.Flaviano, a testimonianza del loro affetto.
Sulla pietra tombale, è riportata l’iscrizione “Propter nimium est est est hic Johannes de Funk dominus meus mortuus est”, che, senza molte perifrasi, allude alla morte felice di monsignore, avvenuta dopo un’abbondante libagione del suo vino preferito.
La lapide non lo riporta, ma tradizione vuole che nella stessa tomba sia sepolta la sua amata, la sora Gina.
Ogni anno, a ricordo del grande vescovo-barone-benefattore e della sua sposa, viene versato, in una notte di plenilunio di agosto, sulla loro tomba un barilotto dell’ottimo vino locale da parte di quei montefiasconesi, che, durante l’anno, si siano maggiormente distinti a onorare degnamente il dio Bacco. E, ogni volta, qualcuno di loro giura di avere sentito, provenienti dalla tomba, gridolini di benessere “Est! Est!! Est!!!”.
Gaetano Gaziano.
tanogaziano@yahoo.it

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domenica 19 giugno 2011

REFERENDUM: E ORA SPAZZIAMO VIA IL PORCELLUM

L'esito degli ultimi referendum ci consegna un risultato di natura politica, sociale e culturale di grande spessore storico, l'esigenza cioè fortemente avvertita dai cittadini di volere partecipare alle scelte esistenziali di primaria importanza, come quelle che riguardano la vita democratica del nostro Paese, le strategie energetiche, la forma pubblica o privata dei servizi e, in generale, tutte quelle decisioni che comportano mutamenti profondi nell'assetto economico-istituzionale dell' “azienda” Italia. La gente ormai è stanca di accettare decisioni prese dall'alto sulla propria pelle.
E si tratta di un sentimento forte non più arrestabile, perché proviene dalla base dei cittadini-elettori ed è alimentato sempre più dalla comunicazione on line che ha definitivamente soppiantato quella tradizionale completamente asservita agli interessi delle lobby affaristiche, verso cui i politici e i sindacalisti hanno assunto un ruolo di meri strumenti di esecuzione.
Questa “rivoluzione” si è cominciata a vedere attraverso i risultati degli ultimi referendum. Se non fosse stato per i movimenti spontanei e per internet il quorum non sarebbe stato mai raggiunto.
Sulla spinta di questo grande successo del popolo “pecorone” (così lo vedono i politici e i sindacalisti) è nato già il movimento per la raccolta delle firme per abrogare l'attuale legge elettorale, definita “una porcata” dal suo stesso autore, il leghista Calderoli.
E la richiesta non viene dai partiti o dai sindacati, attestati come sempre su posizioni conservatrici del potere acquisito, ma da un gruppo di intellettuali come Umberto Eco, Giovanni Sartori, Dacia Maraini, Claudio Abbado, Margherita Hack ed altri che hanno aderito al movimento di Stefanno Passigli, docente di scienza della politica all'università di Firenze, denominato “Io firmo-riprendiamoci il voto”.
Il Pdl e la Lega Nord sono ovviamente contrari, ma è contrario anche il Pd che, per bocca del senatore Stefano Ceccanti, ha bocciato l'iniziativa referendaria.
E su ciò non c'era alcun dubbio visto il comportamento altalenante e ambiguo che hanno tenuto sugli ultimi referendum quelli del Pd.
Non è un mistero per nessuno, infatti, che Bersani fosse filonuclearista e favorevole alla gestione privata dell'acqua. Poi, capendo che il vento del rinnovamento proveniente dal basso avrebbe travolto i partiti e i loro leader, ha cavalcato i referendum, intestandosi arbitrariamente il successo finale.
Oggi osteggiano il referendum sull'abrogazione del “porcellum”, ma domani, capendo magari che l'iniziativa potrebbe avere successo, saranno pronti a saltare di nuovo sul carro dei vincitori.
Ed è anche comprensibile che siano contrari ad abrogare l'attuale legge elettorale.
Come potrebbero sennò i maggiorenti del Pd collocare in Parlamento mogli, figli, amanti e portaborse? Piero Fassino vi ha collocato la moglie, Totò Cardinale la figlia, Franceschini il portaborse, Prodi il portavoce e via “porcellizzando”.
E che fine ha fatto la proposta lanciata di Walter Veltroni, l'Africano, di dimezzare il numero dei parlamentari e di ridurre drasticamente a quelli rimasti l'indennità parlamentare, una delle più alte se non la più alta del pianeta, lanciata in una delle tante tornate elettorali?
Conclusa la campagna elettorale, il “nostro” Walter se ne è candidamente scordato. Demagogia pura!
Oggi si chiedono sacrifici agli Italiani. Le società internazionali di rating, come Moody's, minacciano di abbassare il giudizio di credibilità finanziaria del nostro Paese. Si programma una manovra finanziaria di 40 miliardi di euro, con tagli di spesa in tutti i settori della nostra economia. Tranne ovviamente che nella spesa per la politica.
Anzi i nostri furbetti del parlamentino ci raccontano a volte che si autoriducono le indennità parlamentari, per poi aumentarsele con leggine nascoste spesso in provvedimenti omnibus, dove sono inserite migliaia di disposizioni in materia finanziaria, per cui sperano che l'imbroglio passi inosservato. Patetica speranza. Oggi c'è Internet.
Qualche tempo fa circolavano sul web notizie su prebende e privilegi dei parlamentari italiani.
Benvenuta, quindi, l'iniziativa del comitato per la raccolta delle firme per l'abrogazione del “Porcellum” http://referendumleggeelettorale.it/
Riteniamo che il numero di 500 mila firme, da raggiungere entro il 15 settembre, sarà abbondantemente superato, data la rabbia che circola tra gli elettori che si sentono espropriati del diritto di voto.
L'attuale sistema elettorale li ha ridotti a semplici ratificatori di scelte fatte non da loro ma da qualcun altro, sopra le loro teste.
E sono arrivate subito le reazioni scomposte del potere, di destra e di sinistra, contro l'iniziativa referendaria.
La legge “Porcellum” fa infatti comodo a tutti.
Questi burosauri della politica non hanno capito che il vento è cambiato.
Stanno tentando di restare abbarbicati alle poltrone, come il granchio allo scoglio.
Manderanno i lacché di regime a spiegare che, rispetto a questa legge elettorale, indietro non si torna, prometteranno che saranno loro stessi a modificarla ma non lo faranno mai.
Fin quando arriverà il giorno del referendum.
E saranno tempi duri per i furbetti del parlamentino.
Gaetano Gaziano.
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